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Annuario del Centro Studi Umanista Mondiale (1995)

SAGGIO SU UMANISTI ILLUSTRI dell'Accademico Boris Koval

Mosca, Dicembre 1995

INTRODUZIONE

Nella storia dell'opinione pubblica mondiale ci sono figure le cui opere intellettuali segnano certe tappe qualitative del progresso. Varie epoche e vari paesi ebbero i loro eminenti pensatori, i loro scienziati, uomini politici, scrittori e musicisti, i quali diedero un indubbio contributo allo sviluppo culturale universale dell'umanità.

Tra queste figure possiamo menzionare a pieno titolo i nomi di Friedrich Nietzsche, filosofo e filologo tedesco; Nikolai Berdiaev, teologo russo; Josè Martì, poeta e rivoluzionario cubano; Josè Mariategui, politico e rivoluzionario peruviano; Jean-Paul Sartre, filosofo e drammaturgo francese. Sono state personalità molto differenti tra loro. I loro modi di considerare la vita non coincidono in alcun punto. Nietzsche sostenne il nichilismo e l'immoralismo, idealizzando un superuomo del futuro. Berdiaev predicò il concetto mistico di Uomo-Dio. Martì diventò un apostolo della rivoluzione liberatrice a Cuba. Mariategui interpretò il marxismo a modo suo e difese l'idea della rivoluzione socialista. Sartre fu uno dei fondatori dell'esistenzialismo.

Sembravano essere agli antipodi, dal momento che non c'era davvero niente che li univa. Non si conobbero mai, vissero in differenti epoche e paesi. Ognuno di loro visse il proprio destino e la propria missione.

Ciò nonostante, c'era qualcosa che accomunava i loro concetti, le loro mentalità e le loro considerazioni sulla vita: li univa un orientamento umanista ed un interesse profondo e sincero per l'essere umano, per le sue pene e le sue speranze, le sue angosce per il futuro e l'ansia per migliorare e armonizzare l'esistenza dell'umanità.

E' proprio questo tipo di messa a fuoco che ci permette di considerare questi titani come appartenenti ad un'unica famiglia. Non è per caso che abbiamo scelto questi magnifici cinque. Vogliamo così evidenziare la ricchezza e le differenze tra questi cinque aspetti del pensiero umanista. Sarebbe assurdo ed offensivo pensare all'umanesimo, anche all'umanesimo contemporaneo, come a qualcosa di monotono e uniforme; al contrario, esso non sopporta i dogmi di qualsiasi genere. Al suo interno è libero e aperto, essendo in costante sviluppo.

L'essenza filosofica e politica dell'umanesimo non è altro che un riflesso emotivo e spirituale dei problemi reali dell'esistenza dell'uomo nel corso della sua lunga evoluzione storica. I geni più eminenti giunsero ad analizzare solo alcuni aspetti di questa evoluzione, a volte permeata di toni drammatici. Questo è il motivo per cui abbiamo scelto cinque pensatori molto differenti, ognuno dei quali descrive uno o l'altro aspetto dell'orientamento umanista.

E' proprio il comparare diversi punti di vista, diverse cosiddette espressioni dell'umanesimo che ci permette di scorgere il quadro completo, di arrivare cioè a capire la profondità, la diversità creatrice e la prospettiva di sviluppo dell'umanesimo.

Il nostro saggio, elaborato in accordo al programma scientifico del Centro Mondiale di Studi Umanisti, non è altro che un modesto tentativo di delucidare alcuni momenti, quelli rimasti in ombra o addirittura ignorati. Senza di essi la storia dell'umanesimo mondiale risulterebbe privata di una grande ricchezza.

A partire da tale posizione ci permettiamo di offrire al lettore questo materiale su cinque differenti messe a fuoco dell'umanesimo.

1. UMANESIMO O ANTICRISTIANESIMO? (Discussione su Friedrich Nietzsche)

Friedrich Nietzsche… Questo nome così mitico affascina la mente della gioventù progressista dalla fine del secolo scorso fino ad oggi. Allo stesso modo, vari politici seri, numerosi scienziati e scrittori di fama mondiale non possono evitare di subire la sua ipnotica influenza. Per alcuni fu un idolo, per altri personificò un grande male.

Nikolai Berdiaev, eminente pensatore russo, fece una valutazione molto precisa del grande significato di Nietzsche per la nostra epoca: “Il filosofo tedesco, con una impertinenza senza precedenti, si decise a creare qualcosa di nuovo, infranse le convenzioni dell'epoca critica sul parlare di qualcosa, anzi, sul non parlare di qualsiasi cosa. Egli se ne infischiò del decoro del secolo scientifico, impersonando la propria vita, lanciò un grido dalle proprie viscere, piu' che parlare della propria vita. Si tratta di un genio o di qualcuno che ha il dono creativo di esprimere qualcosa di nuovo”.

Disgraziatamente, in URSS, a partire dal 1923, questo qualcosa di nuovo fu completamente proibito, fino a poco tempo fa. Nessuna delle sue opere è stata pubblicata in russo. Tutto ciò che si poteva leggere su Nietzsche si riduceva a 510 righe malvage e false nei dizionari filosofici ufficiali. Quel pensatore profondo ed originale veniva presentato come una canaglia tetra e annunciatrice del fascismo.

In URSS non era stata fatta una seria ricerca sulla sua opera, nonostante sia molto ricca e sfaccettata, la letteratura mondiale dedicata all'eminente filosofo dell'epoca del declino dell'Europa. Troviamo “Nietzsche”, opera di Martin Heidegger in due volumi; “Nietzsche: filosofo, psicologo, anarchico” di V.Kaufman… le importanti opere di K.Jaspers, L.Shestov, F.Gergardt, A.Schweitser e molte interessantissimi lavori di altri autori. Tutti furono tormentati dall'enigma di Zaratustra e cercarono di scoprire, ognuno a suo modo, il segreto dell'etica Nietzscheana.

Gueorgui Plejanov, il primo marxista russo, sotto l'influenza di Leone Tolstoy, o forse daccordo al suo proprio pensiero, dichiarò che l'amoralismo di Nietzsche rifletteva lo stato d'animo proprio della società borghese nell'epoca della sua decadenza. Poco tempo dopo, quel famoso marxista disse: “L'individualismo moderno, che ha trovato un suo brillante rappresentante nella persona di Friedrich Nietzsche, è una protesta contro il movimento progressista delle masse e, per questo motivo, va contro il movimento socialista contemporaneo”.

Vladimir Lenin non entrò in polemica riguardo a Nietzsche, ignorando di proposito la sua filosofia, forse perché si rendeva conto che era più facile polemizzare con K.Kautsky che con Nietzsche. La dottrina di Nietzsche fu intesa dal famoso scrittore russo D.Merezhkovsky come un'ideologia amorale da avventuriero insolente, da vagabondo, plebeo, lumpen, come quegli innumerevoli superuomini popolareschi, superometti. Il suo anticristianesimo è l'essenza ultima della vagabondaggine …

Vladimir Soloviov, filosofo russo, non condivideva i principi vaghi del nietzscheanismo perchè riteneva che dalla finestra del superuomo si aprisse un vasto spazio diretto verso tutti i cammini della vita…, sia i buoni che i cattivi. Ciò corrisponde alla verità, ma secondo Soloviov, Nietzsche cadde in un errore pericoloso, inequivocabilmente dimostrato, riguardo al disprezzo verso l'umanità debole e malaticcia, riguardo alle caratteristiche pagane della forza e della bellezza e nell'attribuirsi un significato sovrumano eccezionale. Qui Soloviov arriva al punto essenziale: l'idea di uomo superiore è una insolenza, o l'uomo tende a perfezionarsi a seconda di come interpreta la nozione di superuomo? Per Soloviov l'avanzamento interiore dell'uomo costituisce una legge naturale della vita, ed è naturale che l'uomo sia propenso a raggiungere l'ideale di superuomo.

Può sembrare che con quella importante dichiarazione Soloviov smascheri l'anticristo Nietzsche e si mostri disposto a considerarlo né più né meno che un pensatore profondo. Il superuomo, secondo Soloviov, può essere chiamato superuomo solo quando si converte nel vincitore della morte, il che è possibile solo con l'aiuto di Dio e solo in unione con Lui. Non ci può essere nessun altro superuomo, perché già c'è stato Cristo. Nessuno lo può replicare, ma esiste comunque la via sovrumana che molte persone hanno percorso, percorrono e continueranno a percorrere per il benessere di tutti. E, certamente, il nostro interesse vitale è che la maggioranza della gente intraprenda questo cammino, poiché alla fine di esso si trova il trionfo completo e decisivo sulla morte.

Nel 1911 Nikolai Berdiaev giunge all'idea di una nuova religione dell'umanesimo autentico, all'idea cioè di una umanità divina. Il compito della storia non consiste nella prosperità, bensì nel trionfo creativo sulle fonti del male. Tuttavia, per superare il male, si dovrebbe svelare la sua nullità definitiva e questo male dovrebbe presentarsi nella sua forma autentica dinnanzi all'umanità. Nikolai Berdiaev sostiene che l'elemento principale della concezione del mondo di Nietzsche é l'idea del superuomo, per realizzare la quale un uomo pone fine alla sua esistenza. L'uomo non è altro che un transito che serve a fertilizzare la terra dalla quale verrà alla luce il fenomeno del superuomo. Si frantuma la morale cristiana e umanista. L'umanesimo si trasforma in antiumanesimo.

Rifiutiamo categoricamente questa deduzione , poiché essa spinge a superare ciò che vi è di debole, vile ed animale nell'uomo. Questo Berdiaev non vuole accettarlo e, tuttavia, inaspettatamente, riconosce che con Nietzsche la nuova umanità passa dall'umanesimo ateista all'umanesimo divino, all'antropologia cristiana, con la quale egli conferisce alla sua nuova religione una umanità divina.

Polemizzando con Berdiaev, Albert Schweitzer considera Nietzsche da un altro punto di vista. Secondo lui, Nietzsche, sottomesso all'influenza dell'antica filosofia cinese, contraria all'ortodossia ecclesiastica ufficiale, vorrebbe sostenere la morale superiore ottimista come lo sviluppo di una volontà della vita, di una spiritualità superiore. Siamo completamente daccordo con questa valutazione. In altre parole, Zaratustra non è nessun anticristo, anche se la maggioranza non lo comprese, o non lo volle comprendere, mentre altri lo calunniarono e cercarono di stroncare la sua etica vivificante e umana, costringendola nel letto di Procuste dei loro concetti e delle loro sensazioni.

K.Svasyan, autore e redattore della prima edizione russa delle principali opere di Nietzsche, fece una breve ed esatta valutazione su di lui: “La filosofia di Friedrich Nietzsche è l'unico esperimento confermato da tuttta una vita dell'autodistruzione della bestia nell'uomo in cambio dell'autoedificazione in essa di un creatore chiamato superuomo”.

E.Fromm espresse in modo diretto, chiaro e definitivo la sua opinione su Nietzsche: “L'idea della dignità umana e della potenza fu proclamata dalla filosofia dell'illuminismo, dal pensiero progressista e liberale del secolo XIX, ma fu Nietzsche che la espresse col maggiore radicalità”. Siamo completamente daccordo con questo giudizio.

Nell'epoca moderna, Nietzsche ripeté in forma originale l'antica idea di Protagora sull'uomo come misura di tutte le cose, aggiungendo che l'uomo è la misura di se stesso e, per questo, aspira ad ascendere, non può far altro che cercare nuove dimensioni del suo spirito, della sua volontà, mentalità e potenza. Da qui logicamente proviene il tema del superuomo come nuova misura dell'esistente, nello sviluppo come nel superamento della staticità dell'esistenza.

Nel parlare di ciò che vi è di fondamentale nella filosofia di Nietzsche, dobbiamo tener conto di tre postulati principali: 1) la trasmutazione di tutti i valori (nichilismo); 2) la volontà di potere (volontà della vita); 3) il superuomo (sviluppo di un uomo nuovo). Le tre nozioni formano i pilastri dell'etica della filosofia nitzscheana.

Alcuni comprendevano il nitzscheanesimo come un nichilismo banale, altri lo accusavano di anticristianesimo; altri ancora scivolavano sulla considerazione che Dio è morto, prendendo questa deduzione ora per ateismo volgare, ora come sofferenza per aver crocifisso il Cristo. Da parte nostra, riteniamo che la cosa fondamentale è che Nietzsche, con la sua formula “Dio è morto” intendeva esprimere la sua preoccupazione per l'assassinio costante della parte ideale, lucida e divina presente nell'uomo, da parte proprio dell'uomo. Egli voleva mostrare la tragedia di tutto l'imperfetto che vi è nell'uomo, la sorte tragica dell'occidente durante due millenni della sua storia, la tragedia inevitabile che ci attende nel futuro, in una infinita peregrinazione per un infinito Nulla.

L'inizio creatore del Dio biblico viene sostituito dall'attività dell'uomo, poiché ogni azione umana risulta indipendente da Dio. Questi ha perso la sua precedente potenza e perciò dobbiamo ridefinire tutti i valori, liberarci del dominio dell'inizio sovrasensibile e sostituirlo con la volontà di potere, con la volontà di vivere.

Nietzsche riteneva che il bene e il male non sono due potenze distanti, ma due lati di un solo processo, nel corso del quale possono scambiarsi di posto o trasformarsi l'uno nell'altro, dal momento che essi provengono da un unico essere, escono dal seno della vita umana e non da quello degli dei.

Nietzsche scrisse che, mantenendo gli occhi aperti e la coscienza pura, giudichiamo che la ferocia e la violenza, la schiavitù e la cattiveria che accecano l'uomo nelle strade e nei cuori, tutto ciò che è male, tirannico, rapace e malvagio, serve, tanto come il suo contrario, all'obbiettivo del superamento di quella specie animale che è l'uomo.

E' realmente così, giacché la lotta iniziale tra il bene ed il male interviene nell'uomo come fattore del suo avanzamento. Se non c'è lotta contro il male, nemmeno la virtù compare; resta solo l'autosoddisfazione superficiale e la passività. Secondo Nietzsche dobbiamo ringraziare di volta in volta Dio, il diavolo, la pecora e il verme che coesistono in noi. E' un richiamo molto importante e significativo. Se questo è vero, allora risultano falsi i racconti filosofici e teologici che si entusiasmano con il bene comune, la virtù astratta, la verità assoluta e la bellezza perfetta. Tutte queste promesse, il ritorno a un passato dorato, i sogni, gettano solo fumo negli occhi. E non si può confidare in essi in alcun modo.

Partendo dal voler dare una valutazione libera del mondo reale, o di un qualsiasi fattore , Nietzsche avverte che né la morale, né tantomeno la religione cristiana, entrano mai in contatto con la realtà. Alla ricerca di un giudizio al di fuori dell'etica o al di sopra di essa, egli giunge in modo molto naturale alla filosofia orientale. Secondo Nietzsche il buddismo è cento volte più realista del cristianesimo… l'autoinganno dei concetti morali è per esso una tappa già percorsa: nella mia lingua esso (il buddismo) sta al di là del bene e del male.

La sfiducia verso le teorie precedenti, l'ansia per la verità, per la liberazione piena dalle illusioni e dai miti, questo è ciò che Zaratustra dimostra al mondo, conducendolo, lungo il suo sentiero, al vulcano pericoloso di un nuovo e libero pensiero.

I filosofi che dipingono Nietzsche come un satanico si basano sulla sua immoralità e sul suo anticlericalismo, ossia, la base della della sua franchezza sorprendente e a volte sgradevole, eccessivamente esistenziale. Ma vogliamo mettere in evidenza proprio il fattore positivo, pienamente umanista del suo satanismo, considerando quella definizione che diede Mikhail Bakunin di Satana: “Il Signore ha categoricamente proibito ad Adamo ed Eva di toccare i frutti dell'Albero della conoscenza del bene e del male. Egli voleva, di conseguenza, che l'uomo, privo di autocoscienza, rimanesse in eterno come un animale prostrato davanti al Dio eterno, suo Creatore e Signore. D'improvviso appare Satana, sobillatore, il primo libero pensatore, emancipatore dei mondi. Svergognando l'uomo per la sua ignoranza e la sua selvaggia obbedienza, lo emancipò e gli mise sulla fronte il suggello della libertà e dell'umanesimo, incitandolo a disobbedire ed a gustare il frutto della conoscenza del bene e del male”.

Proprio questa aspirazione ad umanizzare ad ogni costo l'uomo, e non per desiderio di Dio, ma per la propria volontà di vita umana, costituisce la radice dell'immoralità satanica della libera concezione di Nietzsche. La tonalità, la fraseologia, i modi allegorici di Zaratustra sono un inno all'uomo libero e buono, all'Uomo Reale.

Il genio di Nietzsche consiste nell'unire intuitivamente e poeticamente le più diverse ed a volte opposte conclusioni filosofiche ed etiche della cultura universale. Nella sua concezione del mondo sentiamo l'aroma dei sistemi religiosi orientali e i motivi positivisti dell'ateismo, qualcosa dell'umanesimo dell'Antica Grecia e dell'epoca del Rinascimento, qualcosa dell'anarchismo e del nichilismo del secolo XIX, elementi di ricerca di Dio e di misticismo e molto altro ancora. Non si possono definire delle semplici copiature, essendo organicamente intrecciate con le idee dello stesso Nietzsche e dando origine a qualcosa di totalmente nuovo, potente ed impressionante. Secondo Nikolai Berdiaev, è proprio in questo senso che egli giunse ad esprimere qualcosa di suo e di originale.

E' chiaro che il centro della filosofia di Nietzsche è costituito dalla dottrina del superuomo. Il cammino verso il superuomo passa attraverso la negazione della religione, attraverso il superamento della dipendenza da tradizioni, tabù e norme, per mezzo dell'autosuperamento e dell'autodeterminazione della personalità nel corso della vita. Berdiaev disse al riguardo che in tutto questo Nietzsche esprime la verità di questo lato dell'esistenza.

Nel libro Ecce Homo, lo stesso Nietzsche definisce il suo eroe come un futuro rappresentante di questo tipo umano, che deve essere perfetto in ogni suo aspetto, al contrario dell'attuale buona gente, dei cristiani e di altri nichilisti.

Ne “La Caduta Degli Dei” Nietzsche si esprime in modo inequivocabile contro la morale, non quella solo religiosa, ma contro qualsiasi morale antinaturale, vale a dire contro ogni sermone speculativo e noioso che ponga una differenza tra gli istinti naturali e la morale sana. Ogni pseudomorale è una violenza contro la vita. L'uomo deve essere aperto alla vita, deve cioè essere un immorale, anzi, un non morale o amorale.

Nietzsche non ci invita a negare la moralità e neppure a rimanere attaccati alla amoralità, ma ad avere un'opinione etica libera, il diritto di valutare i fenomeni vitali al di fuori della morale. L'immoralismo di Nietzsche non è l'antipodo della moralità, ma piuttosto è la rinuncia al primitivismo e alla stupidità. Senza dare il dovuto valore al giudizio, non può esistere né la società né l'individuo. In tutti i casi, il livello, la profondità e l'ampiezza della valutazione hanno molte sfaccettature. In questo senso ciò che viene chiamato immoralità è una varietà della morale in sviluppo, sincera, vigente, veritiera, anziché dogmatica e morta.

Solo ora in Russia iniziamo a comprendere i nostri errori rispetto all'impeccabile morale classista, che serviva da paravento al proprio immoralità e finanche all'amoralità sanguinaria.

Il processo di formazione di una personalità libera è lento e doloroso. Dappertutto si opera un trasferimento di valori, la ricerca di una verità, la lotta contro i miti ed i pregiudizi, il rinnovamento della morale, l'elaborazione di una teoria moderna del progresso. Il bene e il male si fondono fino a costituire un qualcosa di poliedrico. Le opposizioni dei valori primitivi come il sì e il no, il bene e il male, il bianco e il nero, risultano superficiali, anche se possono contare sull'appoggio della manipolazione speculativa della coscienza di massa.

Di buon grado, o per forza, passo dopo passo, impercettibilmente, andiamo al di là del bene e del male; superando l'innocenza spirituale, vale a dire, rinascendo immorali. In tal modo cerchiamo di penetrare al fondo del problema, cercando criteri di valutazione ogni volta superiori. Che esistano criteri di un tal genere oggi come oggi, questo non è chiaro; ma è presente la volontà di andare verso la verità, verso una nuova misura umana della realtà, senza i metodi falsi degli antichi moralisti e dei sostenitori della morigeratezza. A nostro giudizio, proprio in questo consiste l'imperativo fondamentale del nostro tempo.

E' praticamente da un secolo che le ceneri di Nietzsche giacciono nella terra, ma il suo spirito e le sue profezie continuano a richiamare la gente verso l'avanzamento. L'uomo continua a percorrere la fune della vita, tesa verso il perfezionamento. Questo cammino è infinito. Le religioni mondiali, la filosofia umanista, la scienza, tutta l'esperienza dei pensatori e quella delle generazioni passate servono da sostegno a questa fune.

Tra i pensatori più importanti ed originali dell'umanità troviamo Friedrich Nietzsche, annunciatore di un raggio di luce e orientatore dell'uomo verso il superuomo.

2. LO SPIRITO LIBERO DI NIKOLAI BERDIAEV

Nikolai Berdiaev, filosofo-teologo (1874-1948), significativo rappresentante del pensiero umanista in Russia, fu espulso dal paese dai bolscevichi nel 1922, insieme ad un numeroso gruppo di eminenti intellettuali. Le autorità sovietiche proibirono la pubblicazione delle sue opere, qualificandolo come scrittore borghese reazionario, a maggior ragione tenendo conto che visse emigrato in Francia. Solo oggi, a quasi mezzo secolo dalla sua morte, Nikolai Berdiaev é diventato praticamente l'idolo preferito dei circoli di pensatori russi, soprattutto di quelli che legano la loro fortuna all'orientamento umanista.

Berdiaev costruì una sua concezione religiosa del mondo, ma senza le formalità ecclesiastiche (fu piuttosto un antiecclesiastico), riconoscendo il legame organico del fattore assoluto della libertà eterna, della volontà divina, con il lavoro creativo dell'uomo. Seguendo il mistico tedesco medievale Jacob Böhme (1575-1624), egli ritiene che la prima categoria sia costituita da un nulla, una pre-esistenza, un abisso (Ungrund) dal quale Dio creò il mondo. Nelle profondità della libertà predivina si nasconde un'opportunità, il potenziale di tutto il mondo: della natura, dell'uomo, del male, del bene, del verme… Dio-Creatore realizzò questa potenza. La libertà custodisce il segreto del mondo. Dio volle la libertà, dalla quale consegue la tragedia mondiale. Libertà iniziale vuole dire libertà finale.

La sintesi del nulla esistente prima di Dio e fuori di Dio, prima della creazione divina del mondo, dello sviluppo dell'uomo e della sua esistenza terrena è ciò che, a detta di Berdiaev, determina l'essenza della missione umana. L'esperienza vitale e la lotta spirituale creano l'immagine dell'uomo. L'uomo non è un essere completo e finito; egli si forma e si crea generando la vita, avendo sperimentato il proprio destino ”… Il mio destino è sempre stato un destino particolare, incomparabile, solo e unico”.

A ragione possiamo denominare tale posizione un esistenzialismo umanista. Nel destino un posto determinante è occupato dalla vita spirituale reale, che sorge dalle “profondità della propria vita primitiva”. L'individuo, privato della libertà spirituale, non è l'uomo creatore, ma un omuncolo, una bestia. Nikolai Berdiaev sottolinea che l'uomo crea la propria personalità nel corso di tutta la sua esistenza, superando dolori e sofferenze predestinate. La personalità è una costante alterabile, vale a dire, che permane nella dinamica di autosviluppo e adattamento alle nuove condizioni di vita. La personalità è superiore al comune universale e non può essere parte di qualcosa. Un individuo è parte integrante della società, mentre la personalità è un qualcosa di integro e di unico. A partire da qui Berdiaev giunge all'idea del personalismo antigerarchico. Per lui, l'uomo è un essere estremamente polarizzato, con aspetti divini e bestiali, degno e vile, libero e servile. L'uomo è una personalità che si fa strada non in accordo alla sua natura, ma al suo spirito. L'unica cosa che fa la natura è quella di formare l'individuo. Berdiaev sostiene che non è l'individuo, ma la personalità che costituiscce il centro esistenzialista del mondo. “Nella personalità c'è molto di genetico, di tradizionale e di naturale, ma questo non costituisce il particolare della personalità, bensì il comune, diciamo il sociale. In altre parole, la personalità non è una categoria biologica o psicologica, ma etica e spirituale”.

Secondo Nikolai Berdiaev “Nell'universo vigono tre principi: la Previsione, ossia Dio sovrauniversale; la libertà, ossia lo spirito umano; il destino, ossia la natura, sorta e irrobustita dall'oscura libertà”.

L'unione di queste forze contiene l'energia dell'intera esistenza dell'uomo. E' questione complessa dire se Berdiaev ponga sullo stesso piano la potenza di questi tre principi. Una cosa è chiara: “Dio e l'uomo esistono uniti in un unico complesso”. Con questa sua dichiarazione Berdiaev rompe con l'ortodossia cristiana, a favore dell'uomo. Berdiaev dichiara apertamente: “Scelgo risolutamente per la filosofia che afferma il primato della libertà sull'esistenza, il primato del soggetto esistenziale sul mondo oggettivo, scelgo a favore dei concetti di dualismo, volontarismo, dinamismo, attivismo creativo, personalismo, antropologismo, filosofia dell'animo”.

Proprio l'attivismo creativo della personalità è ciò che determina la superiorità della libertà spirituale sull'esistenza in quanto sussistenza fisica. Questo è il criterio dell'umanesimo di Berdiaev. Ogni uomo, per sua natura interna, è una regno enorme: “microcosmo, nel quale si riflette e permane tutto il mondo reale e tutte le grandi epoche storiche; non è un frammento di mondo che contiene quel piccolo pezzettino, ma in esso si manifesta un gran mondo…”.

Tuttavia, il destino della vita terrena riflette l'enigma dell'unità di necessità divina e libertà umana. Da qui Berdiaev arriva al suo concetto principale: l'idea dell'Uomo-Dio, abbozzo di Dio nell'Uomo e dell'Uomo in Dio. In tal modo il principio esistenzial-terreno si unisce alla Provvidenza Divina. Questa comunione resta basata sull'enigma della natura doppia del Cristo: Uomo-Dio. “La fonte della libertà - sostiene Berdiaev - è racchiusa in Dio, ma non nel Dio-Padre, bensì nel Dio-Figlio. Il Figlio non è solamente Dio, è anche uomo, uomo assoluto, uomo spirituale, uomo da sempre… La libertà del Figlio costituisce la fonte della libertà di tutto il genere umano…, questo è il segreto dell'Umanità Divina, il segreto di due nature unite in Cristo e, di conseguenza, due nature sommate nell'uomo”.

Questa conclusione mostra l'inquadramento particolare del grande filosofo russo riguardo alla comprensione dell'essenza interiore della vita futura e perfezionata dell'uomo, la quale presuppone la presenza di un contenuto sovrapersonale e l'ossessione per il raggiungimento di un'epoca di Umanità Divina.

Nikolai Berdiaev affronta i volgari problemi terreni dell'esistenza sociale prendendo come base quell'elevato principio. L'essenza dell'esistenza umana è intrecciata con la liberazione dell'uomo, con la personalità capace di impadronirsi del mondo, dello stato, della nazione, di un'idea o pensiero astratti, soggetto direttamente al Dio vivo. Berdiaev appare qui come il difensore assoluto della libertà interiore della personalità, della sua indipendenza da qualsivoglia imperativo esterno: “tabù, morale, massa, socium, imperativo di Kant, legge, ragionamento pratico. Il completo personalismo, l'anarchismo, il lavoro creatore, in ciò consiste l'essenza dell'esistenza: non l'obbedire irriflessivo alla cieca a qualcuno e tanto meno a qualcosa, ma solo a Dio e a se stessi, alla propria volontà di liberarsi…”.

Certo, questo non vuol dire disobbedienza spontanea, confusa e sfrenata. Si tratta della superiore libertà dello spirito, priva di istinti vili. La lotta interna nell'uomo è la lotta dei contrari; solo l'uomo è capace di comprenderlo e di dargli un ordine razionale.

Questo è il concetto esistenziale e umanista dell'uomo e del suo destino propugnato da Nikolai Berdiaev. Il filosofo crede nell'uomo, e lo chiama ad avanzare verso le cime dello spirito autenticamente libero, della volontà libera e della mentalità libera.

Ecco quindi il fondamento in base al quale Berdiaev valuta il carattere ed i limiti delle motivazioni umaniste delle opere di Lutero, Hegel, Feuerbach, Marx, Nietzsche e di altri importanti pensatori. Egli richiama l'attenzione sulla qualificazione dei limiti (limitazioni) dell'umanesimo di Marx e di Hegel. Le concezioni di Marx furono, secondo lui, umaniste, soprattutto per l'aver smascherato l'alienazione dell'uomo e la conversione del lavoratore in oggetto (Verdinglichung) nell'epoca del capitalismo. Ciò nonostante, non appena l'umano si afferma come unico e superiore negando il divino, esso comincia ad essere rifiutato e subordinato a ciò che è comune, sia questo l'unico di Schweitner, piuttosto che il collettivo sociale di Marx.

A giudizio di Berdiaev, la restrizione dell'umanesimo di Nietzsche è di tutt'altro genere. Egli riconosce che per Nietzsche il super-uomo non è altro che il sinonimo del divino. A partire da qui si svolge la dialettica limitata del divino e dell'umano. Nietzsche incarna il sangue dello stesso sangue, ramo del medesimo tronco che costituisce l'umanesimo europeo. Però egli rifiuta l'uomo. Per lui l'uomo non è niente di più di una vergogna e di un disonore nel trapasso verso la nuova razza del super-uomo… Il super-uomo risulta privato del divino e dell'umano.

Berdiaev vuol passar sopra a tutti i limiti dell'umanesimo per offrire il suo super-umanesimo, che è l'idea dell'Uomo-Dio, l'unione dell'umano e del divino. Non si trattava né della fede né dell'obbedienza servile a Dio e alla Provvidenza, ma dell'attività creatrice dell'uomo che supera il bestiale nel corso del suo sviluppo e si rianima con le idee di libertà, di sovrapersonale, di spirituale e morale, ossia dell'interesse umano, dell'intenzione, del progresso.

E' ovvio che le concezioni di Nietzsche e di Berdiaev risultano per molti aspetti simili, anche se il primo rifiuta Dio, mentre il secondo cerca appoggio nel cielo; uno vuole convertire l'uomo in Dio, mentre l'altro cerca di unire il divino e l'umano in un solo essere. In ambedue i casi ci troviamo di fronte a meditazioni sulla vita e sull'uomo sicuramente umaniste, di fronte a ricerche di un nuovo concetto umanista dell'avvenire. Ognuno ha i suoi limiti; sarebbe ingenuo credere che ci sia (o ci possa essere) una modalità unica ed assoluta di concezione umanista del mondo. L'umanesimo abbraccia una nozione molto ampia e ricca, come la vita stessa. Permane sviluppandosi e arricchendosi, formando un Albero della Conoscenza del Bene e del Male, potente e prolifico, dal fogliame sempreverde. Ognuno può gustare i suoi frutti.

In Russia la concezione umanista gettò radici molto tempo fa. Si evidenziò più che altro nelle opere letterarie di Pushkin, Tolstoy, Lermontov, Dostoievsky e di molti altri. Anche i filosofi russi lasciarono la loro impronta luminosa; Berdiaev occupa un posto particolare tra questi ultimi. La sua eredità umanista è enorme e ricca di idee originali, impregnata, soprattutto, di spirito religioso e di spirito nazionale russo. Riteniamo che proprio in ciò hanno radice le fonti della concezione di Berdiaev dell'Uomo-Dio, dell'esistenza umana terrena nell'avvenire.

3. JOSE' MARTI': NON E' DA TEMERE LA MORTE. LA COSA ORRIBILE E' VIVERE MORTI

Un centinaio di anni fa, l'11 maggio 1895, se ne andava combattendo su un cavallo bianco, verso la sua ultima dimora, Josè Martì, apostolo della libertà di Cuba, poeta e rivoluzionario.

Le sue doti di poeta e il suo impeto rivoluzionario, unite assieme, generarono un particolare tipo di eroe, il cui destino e la cui concezione impregnarono del suo spirito tutto il periodo della Rivoluzione cubana.

Quando era un adolescente di 16 anni, nell'ottobre del 1869, un tribunale militare lo accusò di pensiero politico sospetto, per via del suo poema patriottico “Abdala” e per la simpatia manifesta verso la sollevazione anti-spagnola capeggiata da Cespedes. Fu così condannato a sei anni di carcere. In una foto d'archivio vediamo il detenuto n.113, un giovane magro, incatenato, con la divisa carceraria. Ma il suo spirito non sembra piegato, si avverte l'orgoglio interiore del suo patriottismo. Il suo volto riflette la bellezza e il valore propri di una personalità buona ed intelligente, la cui vita e la cui morte furono al servizio della gente, del suo popolo e, soprattutto, della libertà.

Comprese fin da molto giovane quanto difficile fosse per i popoli e per le nazioni intere fare il passo dall'uomo bruto all'uomo uomo… “Affrontare questa bestia e posare sopra di essa un angelo, è la vittoria umana”, scrisse Josè Martìn nel suo articolo “La battaglia del premio” nel 1882. Solo la libertà ci permette di fare questo passo. Il poeta, di appena quindici anni, descrivendo l'aspetto eroico di Abdala, esclama:

E ci comanda l'onore, e ci comanda Dio Per la patria morire, prima di vederla del barbaro oppressor codardo schiava! La vita dei nobili, madre mia, E' lottare e morire per onorarla…

Quel motivo patriottico risuonò ripetutamente nella poesia universale, ma Martì ne fece il suo destino.

Lasciamo da parte il fulmineo e luminoso percorso politico del Martì rivoluzionario e lanciamo uno sguardo alla posizione spirituale del grande umanista.

In primo luogo, sbalordice l'armonia dell'inquadramento umanista ed esistenziale di Martì, con tutto ciò che lo agita e che egli si affretta a condividere con il popolo. Egli venera la vita, letteralmente: la considera il dono superiore della natura. E l'uomo in quanto uomo. Egli è convinto che esista un solo Dio, l'uomo, e un solo spirito divino, la natura. Infatti è così, anche se il comportamento della civiltà contemporanea fa di tutto per aggravare il conflitto dell'uomo con la natura e dell'uomo con se stesso. Cambiano i valori, cambiano gli dei. Soprattutto si generano terribili e crudeli idoli, a proposito dei quali Martì ci lancia il suo ammonimento.

Per lui l'universo è qualcosa di integro, che segue leggi uniche, siano esse il movimento dei pianeti o l'avanzamento del pensiero, i processi fisici come quelli spirituali. La vita fisiologica e sociale dell'uomo appaiono a Martì come frammenti di elementi tragici che generano sofferenze e contrasti, facendo a volte nascere e rinascere esseri brutali, dal momento che, secondo lui, ogni uomo racchiude tutto il mondo animale, può ruggire come un leone, tubare come una colomba, grugnire come un maiale; la virtù è costituita dal fatto che la colomba trionfi sul maiale e sul leone.

In tal modo Martì passa dall'appercezione integra del cosmo all'appercezione integra del microcosmo dell'uomo. Di fatto ed a ragione, possiamo distinguere nell'uomo l'elevato ed il vile, il debole e il forte, la bestia ed il creatore; non solo, grazie allo spirito, può trasformare se stesso, arrivando ad essere uomo-uomo.

Il cammino verso le vette non è facile e passa attraverso sofferenze, ma ciò nonostante solo così si forgia una personalità integra. A differenza dell'individuo, che comprende un organismo biologico, parte fisica integrante della generazione e del socium, la personalità non è un frammento di qualcosa di integro, ma è l'integrità stessa, un microcosmo particolare. Il suo fondamento non è costituito dalla fisiologia, ma dalla spiritualità. E' proprio in questo modo che io intendo la concezione di Martì sul trionfo dell'uomo-uomo, sul superare il bruto, riuscendo a porre la colomba più in alto del leone e del maiale. Non la colomba sentimentale o abulica, tanto meno un angelo con le ali bianche, da beatitudine divina, ma rinvigorita dal suo proprio spirito, dalla sua volontà inflessibile. Mahatma Gandhi, Andrei Sacharov, Albert Schweitzer e altri ancora incarnano questo tipo di eroe. Il suo vigore è costituito non dalla forza, ma dallo spirito; anche Josè Martì lo rappresenta a pieno titolo.

Secondo Martì non è l'immondizia, né l'infamia, e tanto meno la violenza bruta ciò che forma l'intelaiatura della personalità veramente libera dell'uomo-uomo, bensì il saper amare, l'avere compassione, il saper lottare. Josè Martì non porta la sua concezione fino ad un'immagine di uomo-Dio, come fanno Vladimir Soloviov o Nikolai Berdiaev; né sostiene un'idea di superuomo, come Nietzsche. La mania del progetto divino non lo tocca, né quella di utopiche società sulla creazione artificiale dell'uomo nuovo; egli si basa su posizioni terrene umaniste, cercando di facilitare e di arricchire spiritualmente l'esistenza dell'uomo-uomo.

Non è casuale che Martì, seguendo Cesar Vallejo, analizzi la sofferenza dal punto di vista tipicamente esistenzialista, considerandola un fattore importante della poesia, della religione e della solidarietà sociale fra la gente.

Nel saggio “Il carcere politico a Cuba” (1871) quel giovane di 17 anni espone per la prima volta le proprie considerazioni sul fattore doloroso dell'esistenza. Non ha paura della morte, perché crede nell'immortalità degli eroi: “muori con onore e resusciterai dal regno dei morti, ma non cercare la morte, anela a vivere una vita che possa essere giustificata da un grande senso, vale a dire, il bene per gli altri. L'onore può essere macchiato. La giustizia può essere venduta. Tutto può essere stracciato. Ma la nozione del bene fluttua sopra ogni cosa e non naufraga mai.

Martì intende il bene non come una misericordia sentimentale e religiosa che tutto perdona, ma come la lotta reale contro il male reale, prima di tutto contro l'ingiustizia e l'oppressione, per l'indipendenza e la libertà, per l'umanizzazione della vita e di tutta la società.

Martì comprende che il bene non viene da se stesso, non è un regalo, ma si raggiunge grazie all'operare e al lottare contro il male, soffrendo innumerevoli dolori.

Martì confessa: “Prigione, Dio: idee a me così vicine come l'immensa sofferenza e il bene eterno. Soffrire è forse godere. Soffrire è morire all'indegna vita che noi abbiamo creato e rinascere alla vita di ciò che è buono, l'unica vita vera”. Questo concetto orgoglioso e forse romantico, talvolta autosuggestionante, viene suggerito dal trattamento cristiano della sofferenza non solo come salvazione ed espiazione, ma come essenza dell'esistenza, legge della vita.

Però ci sono due tipi di sofferenza: chiara o oscura, purificatrice o distruttiva, eroica o assurda. Martì accetta la prima sofferenza come la sua croce; la trascina volontariamente, come dovere personale verso la sua stessa libertà e verso la libertà del suo popolo. Si può dire che la sua sofferenza è la sofferenza del vivere e liberarsi, del vivere la vita libero. Proprio questo è il fondamento della sua concezione del mondo, del suo destino di poeta e cittadino. A mio giudizio, solo così devono essere intese le sue parole: “Soffrire è più che godere: è vivere veramente”. E continua: “Altri soffrono molto più di me. Mentre altri piangono sangue, che diritto ho io di piangere lacrime? Il martirio infinito della prigione è una sofferenza senza senso, che uccide l'intelletto, rinsecchisce l'anima, ma Martì non vuole odiare né maledire, né disprezza alcuno dei suoi carcerieri. Se io odiassi qualcuno, proprio per questo odierei me stesso”.

In questa confessione si ode il motivo cristiano della misericordia per i dannati e gli oppressori, esseri umani anch'essi. Dio ha cari i cattivi non meno che i buoni, soprattutto se si tiene presente che questa divisione è falsa.

Non esistono due campi, uno di espiazione e uno di felicità, come non esistono i puri. Il cristianesimo vede la presenza di Dio in ogni essere, anche perché tutti sono peccatori, essendo tutti segnati dal peccato originale; non per questo bisogna giudicare tutti assieme, ma bisogna invece manifestare misericordia. Martì condivide questa idea. L'enfasi del giovane carcerato è diretta contro il male, contro le sofferenze inespresse della gente, contro la violenza dei carcerieri, contro l'orrendo, terribile e straziante nulla!, anche se né al colpo di frusta, né alla voce dell'insulto, né al rumore delle sue catene nessuno ha mai sentito Josè Martì odiare. Sempre, al di sopra di tutto, egli mise l'amore per la gente e per la vita.

Alcuni anni dopo avrebbe detto che quello per cui si dispiaceva “non era per la mia esistenza, ma per il vivere senza poter fare del bene”. Quel dolore dell'anima lo portò prima di tutto a sentire compassione per il suo popolo che annegava sotto il giogo spagnolo, e poi ad agire come rivoluzionario.

Le sue parole commemorative per Longfellow possono essere riferite proprio a Martì: “Aveva il colore sano dei casti; l'arroganza magnifica dei virtuosi, la bontà dei grandi, la tristezza dei vivi, e quell'anelito alla morte, che rende la vita bella. Quante e quante qualità semplici, pure e così rare e necessarie mancano nelle generazioni contemporanee. Tutta la nostra esistenza è diventata assai crudele e malsana”.

I temi della vita, dell'amore, della sofferenza e della morte, della lotta e della libertà costituiscono il nodo esistenziale della poesia genuinamente umanista di Josè Martì, che invita l'uomo all'armonia e alla bellezza del mondo. “La vita è un inno; la morte è una forma occulta di vita; santo è il sudore ed il sudario è santo,… la sofferenza è minore per quelle anime che l'amore possiede; la vita non ha dolori per chi comprende a tempo il suo senso…”.

Purtroppo Martì si sbagliava. E' proprio la comprensione del senso della vita che moltiplica l'amarezza ed il dolore, aumenta le sofferenze più di quanto non le lenisca. Ma solo così si può mantener desta l'aspirazione insuperabile alla libertà ed all'autorealizzazione dell'uomo-uomo.

In questo senso, la cosa principale è che la libertà deve essere benedetta, perché, a parte altre ragioni, il suo godimento ispira l'uomo moderno…. L'aspirazione cosciente all'ideale è per Josè Martì l'asse della personalità schietta, che approda all'integrità ed al valore spirituali. Quest'ultimo, suppongo, è determinato ora dal legame con Dio, ora dal legame con interessi sovrapersonali del suo popolo e del suo destino. L'ideale della libertà, così come la credenza, costituiscono la personalità e spingono all'autoperfezionamento. Una personalità concentrata su se stessa si autodisintegra; aperta all'amore e all'abnegazione per gli altri, supera se stessa, autoaffermandosi ed acquisendo una nuova vita etica. La libertà e la chiarezza interne sono, a detta di Martì, la fonte originaria di ogni energia artistica: il lavoro, la poesia, la lotta politica, tutto ciò che l'uomo fa, costruendo, in primo luogo, la propria vita.

Eppure c'è un conflitto, enigmatico ed invincibile, tra la libertà e la felicità. Berdiaev scrisse a suo tempo che la libertà e la dignità impediscono all'uomo di assumere come obbiettivo il bene maggiore della vita: la felicità e la soddisfazione. L'uomo è capace di sacrificare non solo la sua felicità, ma addirittura la propria vita per ottenere la libertà.

Tuttavia, risulta molto difficile ottenerla da sé, superare la rassegnazione schiava e codarda, “rompere - secondo l'espressione di Josè Martì - le grandi e resistenti illusioni a portata di mano, le filosofie, le religioni, le passioni dei padri, i sistemi politici. E lo legano e lo avviluppano: e l'uomo è ormai, per tutta la sua vita sulla terra, un cavallo ubriaco… affermare l'umana volontà; lasciare agli spiriti la loro forma seduttrice; non immiserire, con l'imposizione di pregiudizi estranei, le nature vergini; metterle in condizioni di prendere da sé l'utile, senza offuscarle, senza spingerle verso una via già tracciata. Ecco l'unico modo per popolare la terra della generazione creatrice che le manca!… Il primo compito dell'uomo è quello di riconquistarsi. Per fare ciò è necessaria la libertà, poiché solo questa apre il passo al perfezionamento”.

Martì spinge il tema della libertà fino alla sua ultima conseguenza logica, la libertà non solo nella vita, ma anche nella morte. Secondo Juan Marinello (e non si può non essere daccordo con lui), ”…per Martì la vita è un passaggio angoscioso che si risolve nella morte nobilitante. L'attenzione verso la vita che esistette in terre anteriori, come la creò Martì, e che sarebbe passata nelle terre a venire, suscitò la sua ammirazione… da quel silenzio maggiore nel quale tutti sono uguali”. Nelle sue poesie di lotta, Martì combatte non contro la morte, ma (Juan Marinello lo avvertì sottilmente) ”…combatte per morire bene”.

Molte personalità creatrici, prima e dopo Martì, prospettarono il problema della morte come cuspide della vita. Secondo Sigmund Freud, la lotta tra due principi, l'istinto di vita (Eros) e l'istinto di morte (Tanatos), è ciò che caratterizza l'uomo. Tanatos genera un presentimento di drammatismo del suo destino personale e la predestinazione della sua fine, una certa forza indomabile di sacrificio che va alla ricerca dell'ultima dimora. Il tema della debolezza, dell'esistenza meccanica cadaverica e del desiderio della morte risuonano in molti versi del poeta, il quale, ciò nonostante, compie con coraggio il suo dovere e la sua missione predestinata: ”… io, che da anni, ogni mattina della terra, raccolgo i miei pezzi per continuare a vivere… ”. Un'altra sua poesia recita:

Quello che accade, quello che sì E' una grande verità, è che qui Non c'è che un morto e sono io. Da tanto aspettare è certo Che lo aspetto ogni giorno! Che termini alla fine l'agonia Nel riposo del morto…

Per Martì la morte significa non la fine dell'esistenza terrena, ma un suo rinnovamento, un nuovo obbiettivo, metamorfosi nello spirito del concetto buddista di rinascenza carmica. Il trapasso dalla vita all'inesistenza o ad una nuova esistenza è un atto di libertà, così come l'atto di libertà si manifesta con il nascere, con l'apparire dall'inesistenza. L'unità cosmogonica dell'uomo con la natura rende la sua interpretazione della morte non tragica, bensì eroica. Martì percepisce romanticamente la morte come un passo verso l'immortalità. Nega il fatto della morte per Cristo e in Cristo, e muore come atto di stoicismo e di fiducia nella memoria della sua esistenza come atto di eroismo. Il senso della vita è legato, per Martì, alla fine di essa, con l'uscita dal tempo maligno, verso l'eternità.

Per mantenere questo stato d'animo sono necessarie una speciale tensione spirituale, una certa serenità emotiva e filosofica, una particolare esperienza etica. “Tutta la nostra vita è ricolma di morte, agonia, eliminazione della vita; per questo bisogna venerare la vita, irradiare l'energia creatrice della vita, senza temere la morte, perché forse proprio questa è il fenomeno della vita, il suo ultimo istante, quello che precede l'eternità. La morte è una vittoria e, quando si è vissuto bene, il feretro è un carro trionfale…” credeva molto sinceramente Martì.

E' un fatto simbolico che Martì si lancerà verso la morte quasi volontariamente, uscendo a precipizio sul suo cavallo bianco verso l'ultima battaglia.

… Non è la vita Un magico calice che il capriccio trasforma In fiele per i miseri, e in ardente Tokai per il felice. La vita è… … Porzione dell'universo, frase unita A una frase colossale, serva legata A un carro d'oro, che agli occhi stessi Di quelli che travolge con veloce corsa Si occulta nell'aurea polvere, serva con nascoste briglie, pesante, All'instancabile eternità legata!

Il grande Josè Martì balzò in un batter d'occhio da quel cavallo da combattimento sul carro trionfale dell'immortalità.

La nostra modesta conferenza serva da viva testimonianza di quanto sopra esposto. Molte idee e aspirazioni di Josè Martì suonano all'unisono con le inquietudini e le sofferenze delle generazioni contemporanee. Per noi russi ha un'attrazione ed una considerazione speciali la personalità di Martì, portatore dell'umanesimo, lottatore per la dignità e per la libertà. L'esperienza di tutta la storia russa, soprattutto degli ultimi decenni, mostra quanto sia difficile per la gente il passaggio dall'uomo-bruto all'uomo-uomo, il superamento dell'ostilità e della violenza.

La civiltà in generale sta vivendo una crisi profonda. Non è facile venirne fuori. L'umanità è attesa nel futuro da nuove sofferenze e da nuove prove. Eppure, la sinfonia della vita continua a suonare. La vita e l'opera di Josè Martì, grande saggio di Cuba, giustificano questa formula: “Non è da temersi la morte. La cosa orribile è vivere morti”.

4. TRE PUNTI DI VISTA SU JOSÉ CARLOS MARIATEGUI

Sono trascorsi cent'anni dalla nascita del pensatore peruviano José Carlos Mariategui, civilizzatore di grande ingegno, romantico ed infaticabile lottatore per la causa del socialismo.

Nel 1994, in vari paesi del mondo, si sono tenute conferenze scientifiche e pubbliche riunioni nelle quali grandi scienziati e politici hanno scambiato opinioni sull'eredità teorica di Mariategui; sono state discusse questioni d'attualità riguardanti lo sviluppo sociale contemporaneo. Queste relazioni hanno contribuito a chiarire ulteriormente l'apporto di Mariategui all'analisi dell'esperienza storica del Perù e dell'America Latina, della filosofia e della cultura mondiali, e anche il significato della sua personalità nell'organizzazione di movimenti operai e di liberazione nazionale. Anche se risulterebbe più facile unirci al torrente di elogi emotivi, molto di moda, sulla grandezza della personalità di José Carlos Mariategui, preferiamo analizzare serenamente l'opera del saggio enciclopedista peruviano appoggiandoci sull'esperienza tragica dell'epoca che sta per finire e valutando i “più” ed i “meno” della sua concezione del mondo.

In primo luogo, risveglia in noi vivo interesse non tanto l'attività politica di Mariategui (soprattutto considerando che essa è già stata vista nei particolari), ma le sue concezioni umaniste, trattandosi di una grande personalità e di un rivoluzionario. Siamo partiti dal criterio universale umanista, che considera l'uomo come il valore più alto e riconosce l'unicità di ognuno degli aspetti dell'esistenza individuale. L'umanesimo, come orientamento filosofico, non porta in sé un carattere sociologico e tanto meno ideologico, ma possiede un carattere antropologico ed esistenziale. Ciò non significa che l'orientamento umanista sia separato dalla politica, ma che, in ogni caso, non le obbedisce, poiché esso ha una sua propria opinione sul mondo e sull'uomo, sul mondo dell'uomo. Altra cosa è come questa messa a fuoco si incarna nelle varie filosofie, siano esse religiose o civili, subendo deformazioni sociali causate dal tempo e dalle circostanze.

L'umanesimo, inteso come il modo vitale di trattare una persona, un socium, la sua interdip[endenza così complessa, possiede una sfumatura inevitabilmente individuale, quantunque l'autodeterminazione autentica dell'uomo all'interno dell'ambiente sociale sia sempre rimasta pesantemente schiacciata dalla volontà e dagli interessi collettivi, fosse una religione o una idea ufficiale. Basti ricordare i roghi dell'Inquisizione, l'esperienza del calvinismo, il catechismo di Bakunin-Nechaev, la storia del fascismo, del comunismo e altre ancora. Anche il marxismo, proprio come faceva il decalogo di Mosè, insisteva nel perseguire rigidamente il castigo morale e nell'assegnare una priorità assoluta alla volontà e agli interessi di una classe ed alla concezione rivoluzionaria, attribuendo loro quasi un senso di provvidenza divina. In quell'ambito magnetico di umanesimo sociale, o socialista (Karl Marx lo definì umanesimo “pratico” o, a volte, “pragmatico”) maturò l'opera intellettuale di Mariategui, il quale scelse la sua strada per proprio conto. Se egli non avesse fatto altro che una copiatura pura e semplice dei postulati normativi di Marx (a volte lo fece, non potendo evitarlo), i suoi sforzi non potrebbero essere valutati a dovere. Mariategui riuscì, in parte, a superare la tirannia dei dogmi e tentò di armonizzare l'astrazione sociale con la realtà peruviana. Questa sua ingenua aspirazione diede un tono di originalità a tutte le sue interpretazioni e pose il suo autore al di sopra della rozza moltitudine dei difensori “meccanici” del marxismo.

Per decifrare la specificità concettuale dei modelli di uomo e di società propugnati da Mariategui, useremo l'esemplare metodo di Oliver Wendell Halmes, citato da Miguel de Unamuno nelle sue novelle. Secondo questo metodo, per valutare un individuo sono necessari tre differenti punti di vista: la personalità come tale; la personalità secondo il suo proprio giudizio; la personalità secondo il giudizio degli altri. Tentiamo di descrivere queste tre facce di Mariategui, iniziando però dall'ultima, vale a dire dalla valutazione che la comunità scientifica contemporanea ha fatto della sua opera. La prima cosa che salta all'occhio è la differenza tra ciò che è stato enfatizzato dalla letteratura russa (ex-sovietica) e dalla più sviluppata letteratura marxista da una parte e, dall'altra, dalla letteratura politica mondiale non marxista. A questo riguardo, le divergenze di giudizio storico furono a dir poco contrapposte fra loro. Inutile dire che, in entrambi i casi, si possono riscontrare alterazioni di orientamento e di giudizio assai strane, dipendenti dalle circostanze. Tanto i primi come i secondi presentarono Mariategui ora come un eroe, ora come un malvagio. In definitiva, si sono create varie immagini, a volte reali, a volte vere in parte, altre volte decisamente false. Questa variabilità di opinioni è spiegabile, in una certa misura, proprio con l'evoluzione della personalità di Mariategui.

Si sa che, dopo essere rientrato in Perù dall'Europa, egli sviluppò un'energica propaganda in favore del marxismo, della rivoluzione di Ottobre, del bolscevismo e del socialismo, sostenendo la necessità della lotta rivoluzionaria contro l'imperialismo, l'arretratezza e lo sfruttamento. Tale orientamento, naturalmente, lo portò a rompere con Haya de la Torre e l'aprismo, che stava su posizioni di riformismo non violento e di “anti-imperialismo costruttivo”. In quel periodo l'Internazionale Comunista appoggiò Mariategui criticando severamente il modello aprista di Homindan (anche se la critica fu assolutamente vana). Gli stessi apristi, al pari di altri critici del bolscevismo, accusarono Mariategui di “europeismo”, di mancanza di contatto con la realtà peruviana, di attaccamento al socialismo dottrinario.

Alcuni anni dopo (soprattutto dopo la sua morte), sotto l'influenza della campagna stalinista di “bolscevizzazione” del movimento comunista, venne svalutato il ruolo svolto da Mariategui nell'Internazionale Comunista: dopo essere stato preso per un fedele seguace del marxismo, venne trasformato in un dirigente piccolo-borghese (semi-aprista) che voleva “peruvianizzare” a suo piacimento l'eccellente e universale dottrina di Marx-Lenin. Anche V.Miroschevsky, nell'anno 1941, accusò Mariategui per le sue “concezioni populiste”. Altri lo incolparono di aver aderito alle idee del “sindacalismo rivoluzionario” di Georges Sorel. Non trovò appoggio il suo progetto di fondare il partito socialista. Una analoga “scomunica” da parte dell'Internazionale Comunista, assai crudele ed ingiusta nei modi e tragica nel suo significato, la subirono molti eminenti rappresentanti della prima generazione comunista dell'America Latina. Comunque sia, dagli anni '30 ai '50 il nome di Mariategui, così come quelli di Gramsci e di Lukacs, risvegliava in numerosi politici del movimento comunista internazionale una netta e veemente disapprovazione. Al contrario, nella letteratura non marxista, l'opera di Mariategui venne rivalutata e contrassegnata positivamente. Veniva vista con favore soprattutto la tematica peruviana (o addirittura latinoamericana). La critica per i motivi rivoluzionari riscontrabili nella sua opera fu sostituita, poco a poco, dal riconoscimento per gli interessi scientifici presenti in essa, l'interpretazione oggettiva dei problemi indigeni, delle questioni agrarie, dell'evoluzione economica generale del Perù, ecc.

In occasione del centenario di Mariategui, numerosi simposi e conferenze commemorative espressero coincidenti valutazioni tanto sulla sua opera come sulla sua pratica politica. Nella maggioranza dei casi, non ci si soffermò tanto sui fondamenti della sua concezione, ma piuttosto sul ruolo di educatore e sulla enciclopedicità dell'Amauta (saggio per gli antichi peruviani, NdT). Molti hanno utilizzato cliché mitologici: “Mariategui è il simbolo del Perù”, “Mariategui vuol dire la speranza della nuova generazione”, ecc. Praticamente tutti riconoscono la sua fedeltà alle idee socialiste ed umaniste, ma tacciono della sua accettazione della violenza rivoluzionaria e del suo non voler riconoscere gli aspetti più dolorosi della “pratica marxista-leninista” nell'URSS. In una parola, e detto senza mezzi termini, sotto la bandiera del centesimo anniversario, si è impossessata del mondo la tendenza a iconizzare, a beatificare l'Amauta, a trasformarlo cioè da onorato rivoluzionario e pensatore di talento in un personaggio astratto e immacolato, un idolo sintetico da adorare e cantare con infiniti alleluia.

Trascorsi 64 anni dalla morte di Mariategui, un punto di vista indipendente e ragionato è di somma importanza per poter studiare la sua opera ed il suo posto nella storia del Perù, perché, proprio grazie ad esso ripuliamo il nostro spirito, superiamo illusioni ed equivoci, “rinnoviamo” la mente. Solo questo cammino ci permetterà di avvicinare Mariategui come persona vicina e viva e non come una mummia da museo.

Nella presente relazione è di particolare interesse il secondo punto di vista su Mariategui: ciò che egli pensa di se stesso. Si è soliti prestare grande attenzione prima di tutto alla sincerità del suo attaccamento all'attività rivoluzionaria. E' chiaro che Mariategui fu portatore fedele dello spirito rivoluzionario e propagatore instancabile del marxismo. Il suo orientamento politico non si è formato in un batter d'occhi, e nemmeno da zero. Parlando della sua amicizia con il poeta modernista peruviano Alcides Spelucin, lo stesso Mariategui riconosce: “Io e lui proveniamo, più che dalla stessa generazione, dalla stessa epoca. Nascemmo sotto lo stesso segno. Ci nutrimmo, nella nostra adolescenza letteraria, delle stesse cose: decadentismo, modernismo, estetismo, individualismo, scetticismo. Più avanti condividemmo il doloroso ed angoscioso lavoro di superamento di queste cose e di fuga dalla loro morbida sfera. Partimmo verso l'estero alla ricerca non del segreto degli altri, ma alla ricerca del segreto di noi stessi”. Egli scoprì il segreto per superare quella morbida sfera proprio nel marxismo. Certamente giocò un ruolo speciale la permanenza di Mariategui in un'Europa in cui i movimenti operai e social-democratici avevano acquistato grande vigore. Anche le molteplici e variegate tematiche sociali proposte da Nietzsche, Bergson, Sorel, Marx, Tolstoy, Lenin, Unamuno, Barbuse, ecc., ebbero molta influenza sul processo di formazione della concezione filosofica dell'illustre peruviano. La tavolozza creatrice del suo mondo intellettuale non ha potuto formarsi che così. E subito egli formulò la sua idea-chiave. “A partire dal 1918, accettai con molta decisione il socialismo”, riconobbe Mariategui. Fu una scelta molto libera e volontaria, sebbene da allora ripeterà sempre più spesso, sempre più monotonamente, proclami marxisti sul proletariato, sulla rivoluzione, sul marxismo, sul comunismo. Questa faccia della medaglia è già nota; per cui, sarà della massima importanza sottolineare piuttosto l'influenza profonda che la dottrina socialista esercitò sulla personalità di Mariategui: “Il mio pensiero e la mia vita costituiscono una cosa sola, un processo unico”.

A mio modo di vedere, bisogna interpretare queste parole nel senso che una idea rivoluzionaria diventò “la sua idea” e che, da lì in poi, essa guidò il suo agire come uomo e come rivoluzionario. Una simile socializzazione di solito finisce per schiacciare la libertà spirituale di una persona e sostituirla con una coscienza e degli interessi collettivi. Fortunatamente, Mariategui riuscì ad evitare questo destino grazie alla sua immensa intelligenza ed al suo forte carattere: “Al contrario di ciò che, a buon mercato, si potrebbe sospettare, la mia volontà è affermativa. Il mio è un temperamento da costruttore e niente è più antitetico a me del bohemien puramente iconoclasta e distruttivo… il realista sa che la storia è un riformismo… Lo spirito dell'uomo è indivisibile… La politica in me è filosofia e religione”. Questa frase esige alcune precisazioni. E' evidente che Mariategui, rifererndo queste parole a se stesso, in realtà si esprime contro chi identifica la rivoluzione con atti distruttivi e negativi, a favore, invece, di chi la considera come evento trasformatore. In questa concezione non c'è niente di nuovo, perché i marxisti, a differenza dei seguaci di Bakunin, hanno sempre sottolineato il carattere creativo della rivoluzione.

Risulta molto più difficile scoprire l'essenza della percezione della politica come filosofia e religione. Per quello che abbiamo visto, Mariategui intese la politica come un metodo per realizzare la filosofia del marxismo, mentre identificò il socialismo con la credenza religiosa nella salvazione. Vorremmo ricordare che Anatoly Lunacharsky (il quale risvegliò in Mariategui un singolare interesse non solo come persona, ma anche per la sua opera) considerò il marxismo come “l'ultima religione” specifica (atea). I sostenitori della corrente reazionaria etico-filosofico-religiosa “Ricerca di Dio” ed i seguaci di “Costruzione di Dio”, tendenza religioso-filosofica che propagandava un cristianesimo rinnovato dell'“essere tutt'uno” (correnti sorte ambedue dopo la rivoluzione del 1905), dedicarono la loro attività proprio ad instaurare questa “religione”. Non è da escludersi che Mariategui condividesse in certo qual modo queste concezioni o che, comunque, riconoscesse loro il diritto di esistere.

Una tale supposizione è confermata dal fatto che Mariategui riconosce la grande magia spirituale ed emotiva che le illusioni ed i miti rivoluzionari sanno esercitare. Non è un caso che, concludendo il suo saggio sul fattore rivoluzionario, esprima pieno accordo con Sorel riguardo “gli attuali miti rivoluzionari o sociali, i quali possono occupare la coscienza profonda degli uomini con la stessa pienezza degli antichi miti religiosi”. E' molto curioso che alcuni traduttori dei “Sette saggi di interpretazione della realtà peruviana”, mossi dal desiderio di togliere il marxismo dalla “famiglia mistica”, forzarono la traduzione di quel frammento nel seguente modo: “Come afferma Sorel, l'esperienza storica ultimamente ha mostrato che gli attuali miti politici (!) o sociali sono capaci di occupare la coscienza profonda degli uomini con la stessa pienezza degli antichi miti religiosi”. Comunque sia, è certo che Mariategui equiparò l'enfasi religiosa con l'influenza emotiva e psicologica che la speranza in un mito rivoluzionario esercitava sulle masse. “Il mito muove l'uomo nella storia. Senza un mito, l'esistenza dell'uomo non ha nessun senso storico”.

Di fatto è così. Non è un caso che la filosofia e la religione si basino entrambe su mitologemi e simboli, la mancanza dei quali non contribuisce affatto ad avvicinarci alla realtà, ma piuttosto a distaccarci dall'esistenza. Nikolai Berdiaev scrisse al riguardo: “Il mito è una realtà, una realtà molto più ampia di una concezione. E' sbagliato comparare il mito alla finzione o all'illusione della mente primitiva. Il mito riflette e trasmette aspetti reali della vita”. Le masse possono vivere solo adorando simboli - religiosi, nazionali o rivoluzionari (sociali). Così sorge l'inconscio collettivo animato da simboli e miti i quali, a differenza della demagogia, si rivolgono solo agli istinti ed agli interessi superiori. “Ciò che è individuale ed inconscio, in quanto tale, non crea di per sé il fanatismo, né la collera, poiché questi sono stati che necessitano di un ambiente nutritivo creato solo dalla vita di massa”, afferma Berdiaev.

Il mito fa sviluppare l'uomo dando impulso alla sua mente, alla sua moralità ed alla sua volontà, orientando i suoi atteggiamenti vitali, il suo comportamento, costituendo punti di vista oggettivi. E' chiaro che tutti questi fattori esistenziali si formano non tanto prendendo come base dei mitologemi, magari falsi, quanto piuttosto grazie ad essi. Altrimenti non potremmo spiegarci la vita e l'opera di Mariategui. Per lui la mitologia rivoluzionaria non fu un simbolo astratto, ma il fattore determinante della libertà vitale. Questo è il motivo per cui, secondo la mia opinione, Mariategui considerò la filosofia rivoluzionaria e a volte la religione come completamento della politica di classe. Non dissipò nessun altro mito rivoluzionario contemporaneo, eccetto la lotta antiimperialista, la quale, tutto sommato, è parte integrante di una rivoluzione socialista universale.

Con ciò gli si presentò il problema di una dottrina marxista universale e del suo grado di adattamento alle condizioni concrete delle diverse società; problema estremamente complesso ed attuale per l'epoca di Mariategui. Proprio questo problema lo preoccupò più di qualsiasi altro, portandolo a meditare in continuazione sul destino della sua patria. “Il mio lavoro si svolge secondo il dettato di Nietzsche, il quale non amava l'autore sacrificato, sottomesso alla produzione internazionale… Molti progetti di libri visitano la mia veglia, ma io so già in anticipo che realizzerò solo quelli che un imperioso mandato vitale mi ordinerà”. Quell'“imperioso mandato vitale”, nelle condizioni della Russia attuale presenta in modo totalmente nuovo il problema globale della teoria (o del mito) e della pratica socialiste. Ciò significa che ormai non si può più valutare l'opera di Mariategui orientandosi su modelli precedenti.

A suo tempo la grande illusione del socialismo attrasse molte persone, tra cui Mariategui, il quale sognava un nuovo Tiuantinsuyo comunista in un paese nel quale il proletariato era praticamente assente e le opposizioni della società borghese continuavano ad essere sottosviluppate. Egli sognava una comunità indigena che giocasse il ruolo di bacchetta magica. Così nacque l'idea del socialismo peruviano. Nella prefazione al N.17 della rivista “Amauta”, Mariategui scrisse: “Certo non vogliamo che il socialismo sia in America un calco o una copia. Deve essere una creazione eroica. Dobbiamo dare vita , con la nostra specifica realtà, con il nostro linguaggio, al socialismo Indo-americano. Ecco una missione degna di una generazione!”. Anatoly Schulgovsky, in un suo famoso articolo, traduce l'espressione molto precisa di Mariategui “Socialismo Indo-americano” con “Socialismo in Indoamerica”, che ne cambia radicalmente il senso. Nonostante Mariategui riconosca l'universalismo della dottrina socialista, risulta difficile trovarsi daccordo con l'opinione di Schulgovsky sul fatto che Mariategui non cercasse un proprio modello di “socialismo nazionale”. Era proprio questo che gli interessava più di ogni cosa, quando poneva una distinzione tra la dottrina e le forme reali delle condizioni concrete del Perù, da applicare al modello. Bisogna quindi attribuirgli il dovuto merito per ciò, e non fargliene la colpa. Infatti, quell'onorato peruviano, patriota e rivoluzionario, pur con tutta la sua ammirazione per la teoria, non poteva guardare ad essa con gli occhi di un europeo nè trasferire meccanicamente il concetto generale di socialismo ad un altro clima. Si potrebbe dire che Mariategui fosse il primo a desiderare, molto sinceramente, l'avvento del socialismo, ma la vita lo spinse a sprofondarsi in ricerche creative, valide e originali.

Uno di questi punti di vista è una nota indoamericana (peruviana) presente nella sua concezione del mondo in generale, in particolare nella sua concezione politica. Nel leggere le righe penetranti sulla poesia di Magda Portal non si può fare a meno di notare la compassione molto sottile di Mariategui verso la filosofia del “perenne ed oscuro contrasto tra i due principi della vita e della morte che reggono il mondo, filosofia sempre presente nella poesia di Magda”. Questo drammatico contrasto caratterizza tutti gli uomini, ma la sua profondità metafisica risulta abbordabile solo a personalità eccezionali. Mariategui riteneva che, nelle condizioni del Perù, l'opposizione universale tra vita e morte, tra bene e male fosse ancora più grave, a causa della “dualità della razza e dello spirito”, divenendo una sorta di energia subcosciente dell'esistenza sociale. Tre fattori: quello mistico (“la dualità della razza e dello spirito”), quello storico (esperimento teocratico-comunista di Tauantinsuyu) e quello economico (tradizioni della comunità); questi tre fattori riuniti assieme spingevano Mariategui verso l'elaborazione di un modello di socialismo , cioè verso la creazione di un nuovo mito rivoluzionario. Ad un certo punto l'assortimento schematico di vari criteri formali della dottrina (proletariato, rivoluzione socialista, morale classista, partito) si trasformò in una specie di adesione forzata. Questa circostanza fu captata dagli stalinisti dell'Internazionale Comunista, e ciò permise loro di accusare Mariategui di eresia. Ciò nonostante, anzi, proprio per questa ragione, abbiamo trasformato in complimenti tutti i rimproveri riguardo la “peruvianizzazione del socialismo”, e siamo daccordo con l'affermazione del Presidente dell'Internazionale Socialista Felipe Gonzales: “la maggiore preoccupazione della sua vita fu proprio quella di contribuire alla creazione del socialismo peruviano”. Purtroppo non gli riuscì di creare il modello di Tauantinsuyo socialista: le cose non andarono al di là delle idee. Il risultato di quella simpatia verso il marxismo fu che Mariategui chiuse con l'aprismo, proprio mentre l'Internazionale Comunista lo condannava all'ostracismo per la sua ricerca di un “indosocialismo”. Per un capriccio della sorte, Mariategui venne fatto oggetto di un doppio ostracismo politico; a causa di ciò, non gli rimase altro che un posto di spicco nella vita sociale e spirituale del Perù.

La situazione descritta sopra influì quanto meno sulla sua condizione morale, spingendolo verso un certo pessimismo. Mariategui condivise le opinioni morali generali del marxismo e riconobbe il suo carattere “classista”, negando così i criteri umani generali della moralità. In quel momento una simile posizione era tipica dei comunisti (ma non dei socialisti). Seguendo il dogma marxista sulla morale classista, Mariategui scrisse: “L'etica del socialismo si forma nella lotta di classe. Affinché il proletariato porti a compimento, nel progresso morale, la propria missione storica, è necessario che prima prenda coscienza dei suoi interessi di classe…”. Una posizione del genere contraddice aspramente la vita reale, nella quale la gente (anche il proletariato) si orientava non verso precetti ideologicizzati, ma verso i criteri di vita comuni alla moralità umana. Questo stile appartenne anche a Mariategui.

Parlando di emozioni personali, egli non operava mai con i postulati della morale “classista”, e a ragione: “Io sono un meridionale, un sudamericano e un creolo - nell'accezione etnica della parola - Sono un miscuglio di razza spagnola e di razza india. Ho anche qualcosa di occidentale e di latino, ma molto di più di orientale, di asiatico. Sono per metà sensuale e per metà mistico”. Questa confessione è molto lontana dalle ottiche “classiste”. Il che è naturale, dal momento che Mariategui riconosce anche, molto organicamente, la caratteristica sensuale e mistica del suo carattere ispano-americano. Analizzando la tematica indigena dell'opera di Cesar Vallejo, Mariategui esprime con particolare forza la propria sensazione di appartenenza al popolo peruviano ed alla sua anima. In particolare, egli percepisce molto profondamente la tristezza, la nostalgia e il pessimismo, le confusioni, i dubbi, le inquietudini dell'indio, che terminano nello scetticismo del “a che scopo?”. Egli scrive: “Il suo vacillare, il suo domandare, la sua inquietudine, si risolvono scetticamente in un “a che scopo?”. In questo pessimismo si trova sempre un fondo di pietà umana. Non c'è in esso niente di satanico o di morboso… il pessimismo dell'indio non è un concetto, ma un sentimento; un vago legame con il fatalismo orientale lo avvicina al pessimismo cristiano e mistico degli schiavi”. Questa confessione ci disvela l'anima, pura e umana, di Mariategui, che va ben oltre il razionalismo della direttiva politico-ideologica. In una poesia dedicata alla sua amata moglie, esprime la percezione drammatica e sincera della vita: “Sono stato l'inizio della morte, mentre tu incarni la fonte della vita ispirata”; “il mio cammino spinoso…”, il mio “dolore di sudamericano pallido e scheletrico”. E' qui espressa la nota tragica e pessimista di una grande personalità che si sforza di evadere da un'esistenza provinciale (periferica), anche se autoctona e ricca, per prendere le redini di Eucumenas, scegliendo una via obbligata e molto stretta. Lungo il cammino della sua vita, Mariategui incontrò varie scuole filosofiche e politiche, compenetrandosi con lo spirito del pensiero sociale progressista, ma, a dispetto delle molte tentazioni, scelse coscientemente di associarsi al pensiero marxista. Da qui parte l'orientamento umanista della sua logica e del suo particolare atteggiamento sociale (assolutamente non esistenziale). Secondo il punto di vista della filosofia esistenzialista, così come la formulò Sören Kierkegaard, ogni essere vivo è superiore a qualsiasi idea astratta, sia essa l'“imperativo categorico di Kant” o il benessere futuro dell'umanità. L'altro punto di vista comprende “un'idea”, l'avventurarsi nel sociale, superare il personale. Mariategui sostiene questa seconda linea di pensiero. Per questo, nei suoi saggi sulla cultura menziona appena, indirettamente e superficialmente, problemi umani quali sofferenza, solitudine, amore, timore, libertà, dolore, morte, ecc., dando la preferenza allo sviluppo della forma peruviana del mitologema classista e sociale e del programma di trasformazione della società; toccò anche, solo di sfuggita, il problema del perfezionamento dell'uomo, incluso il suo personale. Ecco il segreto del terzo punto di vista.

Mariategui fu un personaggio brillante e di rilievo. Egli dedicò tutta la sua vita alla causa rivoluzionaria e alla lotta di liberazione del popolo peruviano. Il suo lavoro teorico fu molto originale e la sua ideologia possedeva l'impronta umanista. Questo umanesimo, però, non fu di tipo esistenziale, quanto piuttosto dottrinale e sociale. José Carlos Mariategui appartiene alla sua epoca. Oggigiorno molti dei suoi ragionamenti sembrano ingenui e romantici. Il Perù, al pari del resto del mondo, sta vivendo un'altra epoca storica, in un differente spazio sociale. L'epoca postrivoluzionaria predispone piuttosto verso l'evolversi ed il convergere. E' cambiato il ruolo delle classi e sono cambiate le interrelazioni fra di esse. Le contraddizioni etniche, nazionali e religiose vengono in primo piano. La crisi della civiltà esige una revisione di tutti i valori e, come abbiamo visto, la creazione di nuovi miti sociali e politici. E inoltre il progresso è possibile solo se poggia sull'esperienza della storia e sulle spalle dei suoi figli migliori. Mariategui scrisse a suo tempo: “Nessuna grande opera umana è possibile senza l'unione, spinta fino al sacrificio, degli uomini che la intraprendono”. Una tale unione è sempre guidata da personaggi di grande levatura, da eroi; José Carlos Mariategui, figlio ammirevole del popolo peruviano, è uno di loro.

5. L'UNIVERSALITA' UNICA DI JEAN-PAUL SARTRE

Chiunque tenti di comprendere il carattere e l'essenza umanista della concezione esistenziale si scontra con numerose difficoltà. Ogni interpretazione (compresa la nostra) può risultare equivoca, visto che questa concezione la si può (e la si deve) più sentire (percepire), che interpretare razionalmente e serenamente. La prima impressione provocata dalla filosofia esistenzialista si riduce a una fusione incomprensibile fra ragione ed emozione, le quali, di conseguenza, assumono entrambe un carattere estremamente instabile, sull'orlo dell'eccitazione maniacale e della sincerità manifesta. Abbiamo qui un modello filosofico interessato non ad una fredda astrazione sociale, né ad una “socializzazione” dell'esperienza di una immensa quantità di vite, bensì al destino, di ogni persona in quanto tale. In questo senso l'interpretazione data risulta più vicina alla letteratura e all'arte. Infatti, non è un caso che nelle opere di autori di talento come Omero, Shakespeare, Balzac, Tolstoy, Dostoievski, troviamo manifestazioni evidenti di tale orientamento. Nella filosofia russa fu Berdiaev ad intraprendere questa direzione.

A differenza di altre tendenze del pensiero umanista, l'esistenzialismo considera come valore superiore non solo l'uomo, ma anche l'esistenza dell'uomo (di quell'uomo) con la sua essenza: spirituale, morale, emozionale. Ogni esistenza è una sussistenza, ma non ogni sussistenza è esistenza. Ogni persona vive, ma non ogni uomo è capace di esistere. L'esistenzialismo tenta di definire la differenza tra questi due stati. In una parola, l'esistenza non è una festa della vita, né un diletto, ma un complesso processo di autosussistenza di ognuno di noi sulla terra: solo il Nulla attende ogni persona. Nulla prima di nascere e Nulla dopo la morte. Si potrebbe definire questo stato futuro come “la vita paradisiaca” o l'inferno. Inoltre esso è visto piuttosto come qualcosa di indifferente, senza interesse per l'esistenza, iniziata in un istante e finita in un istante. Certo, a chi crede in Dio risulta più naturale, più facile percepire la propria vita come predestinata. In tutti i casi, con Dio o senza Dio, in questo mondo l'uomo rappresenta solo se stesso. Lui solo, vivo e unico, non i suoi resti o i suoi ricordi, costituisce l'esistenza come tale. L'esistenza risulta più corta della vita, poiché esclude le fasi senza senso (infanzia, imbecillità, scoraggiamento, sonno letargico, ecc.). Un alienato sussiste, ma non esiste. Se le cose stanno così, allora la vita è destinata ad essere impressionante, interessante, piena di senso, dipendente dalla coscienza dell'uomo, dalla forza del suo spirito e della sua volontà. Solo in questo caso la sussistenza fisica diventa una vera esistenza. Si converte in un particolare modo di essere, una sua forma superiore di permanere qui sulla terra, non in cielo.

Proprio questi problemi furono proposti in modo impressionante da Jean-Paul Sartre (1905-1980), grande pensatore francese, nella sua opera drammaturgica e filosofica. Egli qualificò l'esistenza come “l'universalità unica”, assegnata all'uomo non da Dio, ma dalla natura. La lotta aperta contro Dio, esposta nelle opere “Le mosche” (1943) e “Il diavolo e il buon Dio” (1951), non si ferma a negare la credenza o altro, bensì serve da fondamento per addossare all'uomo stesso la responsabilità della sua sussistenza. Non si tratta di chi sia stato il creatore dell'uomo, ma di come l'uomo creò la sua vita: indipendentemente, con la sua volontà, o passivamente, in balìa di qualche altra forza. Sartre difende la prima variante, sebbene non rimproveri coloro che hanno scelto l'altra. Ognuno è libero di intraprendere il proprio cammino di vita. Uno dei personaggi di “Il diavolo e il buon Dio” formula quest'idea: “Il mondo è ingiusto; se lo accetti finisci per essere suo complice, se vuoi cambiarlo diventi il suo aguzzino”. Scegli tu stesso. Quello della libertà e della responsabilità è il problema chiave nella struttura di tutte le riflessioni di Sartre. La sensazione di abbandono e solitudine, inutilità e non-necessarietà è ciò che inquieta l'uomo e non potrebbe non inquietarlo. Ricordiamo i personaggi di Shakespeare, Tolstoy, Dostoievski, il destino dei loro stessi autori. Tutti erano tormentati da una sola questione: “To be, or not to be?”. Se “essere”, allora, a che scopo? e come “essere”? A cosa dare la preferenza: al piacere, alla creazione, all'ascetismo, al lavoro, alla famiglia, al dovere? Come mettere insieme tutto questo? Quest'interrogatorio risuona di continuo in ogni opera di Sartre che, a voler ben vedere, prosegue la melodia esistenziale della cultura mondiale.

La sussistenza nello spazio e nel tempo senza il contenuto umano, la sussistenza irriflessa, puramente naturale, può anche essere buona e lieta, ma è poco interessante, inesistenziale, amebica. L'uomo è predestinato a un destino superiore, altrimenti cade più in basso del suo livello, scivola allo stato bestiale; ma l'uomo può superarlo, egli è chiamato a questo. Il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty (1908-1961), amico e oppositore di J.-P. Sartre, affermò che “l'uomo è una sussistenza che si accontenta dell'identità con se stesso, allo stesso modo di un oggetto; però egli ha anche un'idea di se stesso, si immagina, crea simboli adeguati o fantastici di se stesso…”. In una parola, l'uomo non è uno schiavo, ma il creatore della vita. “Quanto più assurda è la vita, tanto più insopportabile è l'idea della morte”, - riflette Sartre saggiamente. La morte è il punto finale dell'esistenza che elimina la vita, ma non uccide la sua essenza, al contrario aiuta la gente a capire il contenuto e l'essenza dell'esistenza terminata. Quando stiamo vivendo non riusciamo a renderci conto di tutto l'orrore della morte. Quando non viviamo, tutte le meditazioni sulla morte risultano assurde e impossibili. Da tempo si sa che: “l'essere c'è, mentre il non-essere non c'è”. In questo contesto esistenziale della vita e della morte, della vita-morte, Sartre é profondamente tormentato dal problema del tempo: il tempo dell'esistenza, che non è solo una casualità fortunata, ma anche una casualità passeggera. Le argomentazioni di Sartre e dei suoi personaggi sono sempre liriche, per non dire tragiche, anche quando si tratta dei momenti più felici della vita. Ne consegue che non è per niente un pessimismo stupido ed egoista, ma una meditazione filosofica e pacata dell'uomo, che si rende conto della mediocrità e della complessità della sotto-esistenza. Sartre, forse meglio di nessun altro, riuscì a trasmettere l'inevitabilità e l'etica particolare del pessimismo.

Così come elabora trame filosofiche, Sartre presta un'attenzione particolare agli aspetti umani comuni. Il suo saggio filosofico “L'esistenzialismo è un umanesimo”, che venne alla luce nel 1946, espone in una forma popolare i criteri principali della sua concezione del mondo. Sartre respinge decisamente ogni invettiva: sia quelle comuniste (che accusavano la sua filosofia di disperazione e passività, riaffermando il valore dell'individuale); sia quelle cattoliche (che lo accusavano di concentrare l'attenzione su ciò che é basso, sporco, pessimista, rifiutando la solidarietà della gente, o degli altri credenti). “In ogni caso potremo dire che, a partire dallo stesso principio, secondo la nozione dell'esistenzialismo, comprendiamo un concetto che rende possibile l'esistenza umana e che afferma anche che ogni vita ed ogni azione presuppongono un ambiente e un uomo-soggetto”. L'uomo è libero e costruisce se stesso e la sua vita. Ciò costituisce la verità principale della sua esistenza. Questa è la posizione legittimamente umanista di Sartre.

Sartre appartiene alla generazione degli esistenzialisti-atei. Per lui la cosa principale non è meditare su Dio e sulla credenza, ma piuttosto sull'esperienza della vita terrena. “L'esistenza comprende il lavoro della nostra vita interna per il superamento di ostacoli che tornano ogni volta rinnovati; comprende sforzi sempre nuovi e instancabili per dominare disperazioni e fallimenti provvisori e per conquistare trionfi che dipendono da circostanze provvidenziali…”. Non è casuale che il protagonista prediletto di Sartre fosse Sisifo, che l'esistenzialista francese Albert Camus (1913 - 1960) definì “un eroe assurdo”. Anche la nostra vita è assurda; tuttavia, l'uomo-eroe si solleva contro l'assurdo, trasforma la sussistenza in esistenza nutrendola di senso grazie alla sua volontà, alla sua mentalità e al suo lavoro. L'uomo sopporta il suo fardello come Sisifo. “Sisifo - scrive Camus - insegna la più grande fedeltà, quella che rifiuta gli dèi e muove le pietre. Vale la pena considerare Sisifo felice”. La felicità comprende la creazione del proprio destino senza aspettare la salvezza divina. L'uomo ribelle anela ad un ordine umano, che supponga il senso della propria vita. Il destino autentico dell'uomo corrisponde alla penosa fatica di Sisifo. La fine di una sola esistenza non conduce alla fine di ogni esistenza. Essa torna a nascere più volte ancora, vale a dire: acquisisce carattere eterno, riunendo tutto ciò che è morto, l'esistente e il futuro dell'umanità.

La morte dell'uomo origina il pessimismo, mentre la continuazione del genere umano apre la via all'ottimismo. La vita personale piena di senso superiore, sovra-personale, è una sussistenza assurda; anche la diluizione dell'“universo unico” nella totalità è assurda. La cosa più difficile è la ricerca del proprio posto nell'“esistenza nel mondo”. Chi lo ha trovato, si è realizzato come uomo, in lui è indietreggiata la paura della morte; la sua inesistenza si percepisce come le vite future sommate. Questa posizione può essere considerata come umanesimo esistenzialista. Attualmente questa tendenza si diffonde sempre di più, spiritualizzando con un nuovo senso - umano e individualista - i movimenti sociali in favore dell'ecologia, della pace, del benessere, della democrazia; in favore di tutto ciò che rappresenta l'umanizzazione della vita sulla terra.

CONCLUSIONI

Questi brevi cenni, piuttosto incompleti, sulle concezioni umaniste di queste cinque figure della cultura universale - Nietzsche, Berdiaev, Martí, Mariategui, Sartre - ci parlano di concezioni estremamente multiformi che si uniscono nel circolo unico dell'umanesimo e del rispetto dell'uomo. L'essere umano, la sua vita e la sua lotta, le sue inquietudini e preoccupazioni, la sua sorte costituiscono il cuore di questo circolo. Confrontando diverse concezioni, non cerchiamo la verità come assoluto, ma esprimiamo solo le nostre considerazioni, con le quali si può essere daccordo o meno.

Questi maestri c'insegnano che la dignità dell'uomo non vuol dire orrore o tremore di fronte al destino, e neanche attesa passiva della Salvezza ma, al contrario, autocreazione attiva della propria esistenza, nobile, generosa e permeata di lucidità mentale; vuol dire benevolenza verso la vita e verso la gente, attività instancabile per condurre un'esistenza terrena interessante e piena. Nessuno potrà vivere la vita di Nietzsche o di Martí. Essi hanno abbandonato questo mondo per sempre, sono scomparsi nel Nulla. Tuttavia, anche se suona paradossale, essi continuano a restare vivi tra noi, mentre tanti altri vivono tra noi morti e freddi nello spirito. Lo spirito creatore dell'umanesimo è precisamente quella forza energetica che non sfuma nello spazio, ma si trasmette costantemente alle persone, da una generazione all'altra, congiungendo i vivi con i morti.

Ognuno di quei cinque pensatori, che ricordiamo con tutto il nostro riconoscimento e la nostra ammirazione, concepì l'umanesimo a modo suo. Nietzsche ebbe come ideale un “superuomo” capace di trascendere i valori, per arrivare ad essere il creatore veramente libero di una nuova vita. Berdiaev si intestardì con le altezze di un Uomo-Dio che, come Gesù Cristo, unisse in sé le qualità spirituali ed emozionali più pure della persona. José Martí difese la grandezza dell'“uomo-uomo”, la sua libertà e la sua felicità. José Carlos Mariátegui intervenne per sviluppare potenze ed energie dell'uomo-rivoluzionario. Per finire, Sartre espresse la sua profonda preoccupazione per la vita dell'uomo ordinario, sostenendo che ogni esistenza individuale possiede la possibilità di un'esistenza piena. E' meraviglioso disporre di un numero abbondante di interpretazioni differenti. Proprio l'abbondanza di concezioni e di idee costituisce la forza principale del pensiero umanista in generale. Le tematiche umaniste permeano la cultura universale e la vita umana. Dalle epoche primitive fino ad oggi, l'uomo non può vivere senza concezioni umaniste, senza sentimenti umanisti. Purtroppo, gli uomini stessi si fanno del male, esercitano la violenza, danneggiando le loro anime e le loro menti, trattando in modo ostile gli altri e la natura, seminando morte e distruzione. Lo sviluppo della civiltà si trasforma nell'antiumanesimo. Per questo, nelle condizioni contemporanee, è di particolare importanza rafforzare l'orientamento umanista, umanizzare la vita terrena. Solo intraprendendo questo cammino si può trovare una soluzione alla crisi crescente che sta vivendo la civiltà e salvare l'umanità dal suicidio.

cmsu/pubblicazioni/annuario95-3.txt · Ultima modifica: 2010/06/05 20:26 (modifica esterna)