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Annuario del Centro Studi Umanista Mondiale (1994)

LA TRADIZIONE UMANISTA NELLA CULTURA MUSULMANA di Marietta Stepaniants

Istituto Latinoamericano di Mosca, 24 novembre 1993

Prima di affermare o negare la presenza o l'assenza delle tradizioni umaniste nella cultura musulmana, mi piacerebbe determinare la nozione stessa di umanesimo. Credo sia giusto vedere questa nozione come un fenomeno storicamente determinato e in rapporto ai cambiamenti radicali che avvenivano all’interno della società europea prima dell'arrivo dei tempi nuovi. Caratteristica di questa nuova epoca è la revisione dello stesso status dell'uomo nell'universo, e nella coscienza sociale in particolare.

Sappiamo che l'umanesimo in quanto corrente filosofica e letteraria sorse in Italia nella seconda metà del XIV secolo, per trasformarsi nella caratteristica saliente della cultura del Rinascimento. Aspetto peculiare dell'umanesimo - che si oppone alla concezione medievale del mondo, connotata dal teocentrismo - è il suo nuovo orientamento verso i valori umani e la dignità dell'uomo, la sua visione dell'uomo come unità principale di misura di tutte le cose.

Il nucleo della concezione del mondo umanista è costituito dal riconoscimento di come l'uomo sia, nelle sue molteplici manifestazioni, libero. Questa libertà si contrappone all'autorità e al dominio dello Stato, alle istituzioni religiose, al sistema sociale feudale, alla gerarchia sociale tradizionale, e così via. L'Umanesimo prepara la trasformazione dell'uomo. E' possibile che una delle illustrazioni più chiare del credo umanista risieda nella frase del filosofo umanista italiano Giovanni Pico della Mirandola, quando afferma, nel suo Discorso sulla dignità umana, che Dio nel creare l'uomo gli disse:

“Ti metto al centro del mondo affinché da lì ti sia più facile osservare tutto ciò che nel mondo esiste. Non ti feci né creatura divina né creatura terrena, né mortale né immortale, acciocché tu stesso, libero ed illustre maestro, possa formarti l'immagine che preferisci”.

E' ovvio che questo riconoscimento infinito del carattere prezioso dell'uomo e della sua libertà avrebbe potuto darsi solamente al livello più alto di civiltà e di sviluppo umano. Il che non significa che l'Umanesimo sia un fenomeno appartenente solo alla cultura occidentale: gli elementi umanisti sono propri dell'eredità spirituale di tutti i popoli, praticamente nel corso di tutta la storia dell'umanità. Si tratta, in questo caso, dell'esistenza - all’interno di ogni cultura - di quelle tendenze che si contrappongono all'oppressione e all'assoggettamento dell'uomo, e che difendono il suo grado di indipendenza, di libertà della sua volontà.

Nella società musulmana predominò, per secoli, una visione fatalista al riguardo della predeterminazione del destino dell'uomo e della sua dipendenza - così come di tutto ciò che esiste nel mondo - dalla volontà di Allah. La predeterminazione del destino e del comportamento dell'uomo è affermata da numerosi versetti del Corano, per quanto ve ne siano altri che possono essere interpretati come testi che negano la cieca fatalità. Più precisamente, è nella concezione teologica musulmana che fu sottolineata l'idea fatalista. La sua chiara e piena espressione la si trova nei libri di Al-Gazaly, il quale afferma che “Il sole, la luna e le stelle, la pioggia, le nubi e la terra, gli animali e gli oggetti inanimati, tutti sono subordinati ad un'altra forza, come la penna in mano a uno scrittore. Non si può credere che il governante che appose la propria firma sia il creatore di questa firma: la verità è che il suo vero creatore è il Supremo. Come dice l'Onnipotente: “Non fosti tu a lanciare, fu Allah che lanciò”.

Già dai tempi dei primi califfi nel mondo musulmano sorsero discussioni e lotte intorno al dogma della predestinazione. La contraddizione interna a questo dogma risiedeva nella sua incompatibilità con il principio della responsabilità dell'uomo nei confronti del proprio comportamento. Il fatalismo assoluto fu messo in dubbio dai primi cosiddetti musulmani “pensanti” o “scontenti”, i Kadariti (termine che deriva dalla parola araba Kadar, destino, fatalità). I Kadariti difendevano la libertà della volontà dell'uomo e la sua responsabilità nei confronti delle proprie azioni di fronte ad Allah. Anche i teologi musulmani chiamati “Mu'tazil” difendevano la tesi della libertà della volontà. In pratica si può osservare come la polemica fra i seguaci del fatalismo assoluto e quelli della libertà della volontà attraversi la teologia musulmana nell’intera storia dell’Islam. Possiamo affermare che la visione umanista non si è potuta sviluppare appieno, il che si spiega facilmente se si prendono in considerazione le limitazioni imposte dall'ideologia religiosa in quanto tale.

Le più grandi possibilità di espressione della visione umanista si sono avute con il misticismo musulmano, vale a dire il sufismo, e in special modo nell'opera del grande Sceicco Ibn Arabi, nel XIII secolo. Secondo l'interpretazione sufi il genere umano è la forma dell’essere più perfetta dell'universo. Tutte le altre forme dell’essere non sono che un riflesso degli infiniti attributi dell'Assoluto. L'uomo comprende in sé tutto ciò che esiste, tutte le realtà del mondo. L'essere umano è un microcosmo ed è l’unità di misura di tutto l'universo e di tutto il macrocosmo. Più ancora l'essere umano è l’anello di congiunzione tra Dio e il mondo, anello che garantisce l'unità tra l'essere cosmico e l'essere fenomenico. Ibn Arabi paragona l'uomo a un diamante incastonato nell'anello: egli è un segno, un marchio che Dio appone ai suoi tesori. Per questo l'uomo è chiamato ministro o califfo di Dio in Terra e deve custodire le sue creazioni così come si custodisce il tesoro nascosto. Citando il Corano: “Offrimmo senza indugio ciò che ci era stato affidato ai cieli, alla terra e alle montagne; eppure essi rifiutarono di occuparsene ed ebbero timore di riceverlo; ma l'uomo se ne fece carico”. I sufi interpretano questo verso come l'affermazione che il destino dell'uomo è quello di essere “recipiente del divino”.

Per giustificare la sua predestinazione suprema l'uomo deve perfezionare sé stesso, poiché il suo cuore è simile allo specchio in cui si riflette il volto di Dio. Perché sia possibile vedere il creatore in questo specchio bisogna che lo si levighi bene, affinché “il riflesso corrisponda a quel che vi si riflette”. Ciò vuol dire che il significato della vita umana consiste nel compiere il dovere supremo, il che esige la perfezione costante. Per far questo non è sufficiente seguire le norme prescritte dalla società. La legge è “orientamento” nel mondo dell'essere fenomenico. Per colui che percorse il Cammino che porta al tempio dell'essere autentico, il ruolo di “fari” è svolto dai maestri santi. Il maestro supremo nella gerarchia sufi è Al-Insan Al-Kamil. Nella dottrina di Ibn Arabi, “L'Uomo Perfetto” ha sostanzialmente, quando non esclusivamente, la funzione metafisica correlata al principio che risolve il problema dell'unico e del molteplice, del generale e del particolare, dell'essere e del fenomeno.

Nelle dottrine sufi più tarde appaiono in primo piano le funzioni religiose che concorrono a formare l'Uomo Perfetto, il quale svolge appunto il ruolo di mediatore tra Dio e l'uomo. La possibilità della interpretazione metafisica e religiosa di Al-Insan Al-Kamil permetteva di formulare il principio della perfezione morale in relazione al livello intellettuale dell'adepto. Per la maggior parte degli adepti del sufismo, che erano persone semplici, abitualmente ignoranti, erano necessari i maestri santi come orientamento in questo processo. La loro vita, il loro comportamento servivano da lezione visibile, percepita come modello da imitare. Tale imitazione si dava spesso in modo cieco ed irrazionale, trasformandoli in un'arma in mano ai potenti ed ai dominatori, i quali sapevano come sottomettere alla propria volontà i deboli e gli inesperti. L'interpretazione metafisica di Al-Insan Al-Kamil conteneva, parallelamente, un potenziale umanista piuttosto grande. Si postulava che l'uomo stesso potesse essere l’unità di misura della morale, indicatore del bene e del male, in grado di perfezionarsi nel cammino della conoscenza di sé, nel cammino della ricerca del suo vero “io”. “L'obiettivo e il senso del Cammino è trovare in se stessi l'infinito” (Al Fal Farit).

Il concetto dell'“Uomo Perfetto” non corrisponde alla dottrina tradizionale islamica, per lo meno in due aspetti: 1, l'idea secondo la quale l'uomo è il recipiente del divino, insieme alla possibilità di tornare al suo vero Io attraverso l'unità con Dio, porta come conseguenza che la natura dell'uomo è immanente alla natura di Dio, il che è incompatibile con la tesi teistica sul carattere trascendentale assoluto di Dio; e 2, l’ipotesi stessa della possibilità di raggiungere il livello di Al-Insan Al-Kamil racchiude in sé la sfida all'idea del fatalismo.

Riconoscere la predeterminazione assoluta delle azioni dell'uomo renderebbe completamente inutile il cammino di perfezione, come lo chiamavano i sufi, nel quale risiedeva il fondamento della loro dottrina e pratica. Da qui nasceva la tendenza ad unire Dio onnipotente e la libertà della volontà dell'uomo.

Secondo Ibn Arabi l'onnipotenza di Dio si esprimeva nel fatto che egli era sempre stato “colui che dava”: “Egli è il tesoriere di tutte le possibilità”. Ma il Grande Sceicco è ben lungi dal riconoscere solo la necessità ed escludere la possibilità. Egli definisce “intellettualmente deboli” i saggi, che negavano la possibilità come tale e riconoscevano la qualità di categoria logica e ontologica solamente alla necessità assoluta. La ragione per cui Ibn Arabi riconosce la libertà della volontà dell'uomo era che quest'ultimo rappresenta “il recipiente delle possibilità donate da Dio, possibilità che l’uomo deve realizzare - e che è in grado di realizzare - indipendentemente”. “Da Dio discende il fluido dell'essere su di te, mentre la tua decisione proviene solamente da te; per questo puoi lodare e biasimare solo te stesso”.

La libertà della volontà si caratterizza come la bontà di Dio. In che cosa consiste, quindi, il senso della limitazione momentanea della potenza di Dio? Per sottoporre l'uomo alla “prova”? Perché mai il creatore ha bisogno di tentare l'uomo? Perché mai Egli non può donargli solamente la bontà? Per rivelare la vera bontà dell'uomo: poiché - come dice il poeta sufi Yalal Ad Din Rumi - “la verginità non ha alcun valore se sono assenti le tentazioni del vizio”. Ma non è questa la cosa principale. Il male e il bene sono necessari a dimostrare il carattere onnipresente dell'essere assoluto. Dio è tutto, e ciò significa che “Egli si manifesta nelle qualità imperfette e in quelle degne di approvazione”.

L'idea che Dio, per “essere riconosciuto”, si manifesti in forme contrastanti, poiché l’accecante luce divina ha bisogno dell'oscurità per essere vista, è estremamente congruente alle idee dei neoplatonici. Questi affermavano che per giudicare le cose rovinate bisogna prima avere qualcosa che possa rovinarsi; similmente, per giudicare il male è necessario sapere cosa è il bene. Il male e il bene sarebbero dunque rivelazioni oggettive degli attributi divini, della misericordia e della vendetta. La loro essenza risiede nel desiderio del supremo di manifestarsi, vale a dire che tali attributi sono in qualche modo determinati. Fermarsi qui significa non solamente riconoscere il carattere naturale della presenza del bene e del male nel mondo ma anche affermare con certezza che il superamento del male è privo di senso. Non rimarrebbe altro da fare se non rassegnarsi di fronte all'esistenza del male, il che significherebbe riconoscere l’inutilità delle aspirazioni e degli sforzi sublimi volti alla perfezione personale e al progresso sociale.

Rendendosi conto delle conseguenze di quest’ipotesi i sufi cercano di spiegare che, benché il male e il bene siano oggettivi, l'uomo è libero di scegliere tra essi. Yalal Ad Din Rumi paragona la libertà della volontà con “il capitale” che frutta molto e porta benefici a chi sa utilizzarlo, mentre ai dissipatori e a coloro che ne abusano spetta il castigo nel giorno del giudizio finale. Lo stesso Rumi riconosceva come la discussione fra i seguaci del determinismo divino e i loro oppositori non possa trovare soluzione sul piano razionale, e perciò la si deve trasferire dal campo razionale alla sfera dove “regna il cuore”. L'uomo completamente dedito all'amore per Dio diviene parte di quell'“oceano” che è la realtà assoluta. Ogni azione che quest'uomo compia non sarà la sua propria azione bensì l'azione di questo oceano.

L'amore senza riserve per Dio cambia in modo tale l'uomo che la stessa questione della libertà della volontà per lui diventa priva di senso. Egli si sente in totale unità con l'essere assoluto, ed ecco che in lui nasce naturalmente la sensazione espressa dalla frase “Io sono Dio”. Mansur Al Khalad si permise questa espressione insolente, a causa della quale fu giustiziato nel 992. Egli arrivò a questa conclusione: “Il Suo spirito è il mio spirito e il mio spirito è il Suo spirito, Egli vuole ciò che io voglio e io voglio ciò che Egli vuole”.

Rumi interpreta questa espressione di Khalad, “Io sono Dio”, come testimonianza della sua grandiosa dedizione a Dio, e non come superbia. L'uomo che dice “Io sono servo di Dio” conferma in questo modo che esistono “io” e Dio. Colui che afferma “io sono Dio” significa, con questo, “Io non esisto ed esiste solamente Dio”. In una parola: la libertà della volontà, secondo il sufismo, significa volontà non condizionata da quell'ambiente che sta in rapporto all'azione dell'individuo. Il riconoscimento dell'onnipotenza divina risulta essere, in tal modo, un postulato formale, mentre il criterio della morale coincide con il giudizio personale dell'uomo su ciò che è bontà; nel contempo la volontà libera è anch’essa limitata e condizionale, secondo i sufi, poiché essi ritengono che solamente gli eletti siano capaci di giudicare indipendentemente, di scegliere. La maggioranza, nel frattempo, deve subordinarsi ai maestri santi.

Le tendenze umaniste insite nelle tendenze summenzionate, vale a dire nella teologia e nel sufismo, non ebbero un pieno sviluppo tale da permettere di affermare che nella vita spirituale dei musulmani l'umanesimo esista come fenomeno indipendente. Tuttavia, basandosi in modo particolare su queste tendenze, i riformatori musulmani dei secoli XIX e XX cercarono e ancor oggi continuano a cercare di realizzare, secondo le parole di Muhamad Ikbal, “la ricostruzione religiosa del pensiero nell'Islam” diretta all’autentica affermazione degli ideali umanisti.

cmsu/pubblicazioni/annuario94-3.txt · Ultima modifica: 2010/06/05 20:26 (modifica esterna)