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L'Umanesimo Universalista. I fondamenti.

di Vito Correddu

Nuovi Umanesimi a confronto - La Sapienza, Roma
26 maggio 2009


Primo Festival Umanista della Pace e della Nonviolenza - Marina di Grosseto
8 agosto 2009

“Gli umanisti sono donne ed uomini di questo secolo, di quest’epoca. Ritrovano nell’Umanesimo storico le proprie radici e si ispirano agli apporti di diverse culture e non solo di quelle che in questo momento occupano una posizione centrale. Sono inoltre uomini e donne che si lasciano alle spalle questo secolo e questo millennio e che si lanciano verso un mondo nuovo.

Gli umanisti non vogliono padroni; non vogliono dirigenti né capi, e non si sentono rappresentanti o capi di alcuno. Gli umanisti non vogliono uno Stato centralizzato né uno Stato Parallelo che lo sostituisca. Gli umanisti non vogliono eserciti polizieschi né bande armate che ne prendano il posto.

Ma tra le aspirazioni degli umanisti e la realtà del mondo d’oggi si è alzato un muro. E’ ormai giunto il momento di abbattere questo muro. Per farlo è necessaria l’unione di tutti gli umanisti del mondo.”

Con queste parole si apre il documento del Movimento Umanista. Ho scelto queste parole per dare un'immagine sintetica della corrente d'opinione che oggi sto rappresentando in qualità di membro del Centro Studi Umanisti “Salvatore Puledda” di Roma.

Cercherò oggi, nel breve tempo che mi è concesso, di esporre le idee fondamentali del Movimento Umanista, rendendomi fin d'ora disponibile a ulteriori momenti di chiarimento e approfondimento.

Il Movimento Umanista è una corrente d'opinione che nell'arco di 40 anni si è diffusa in più di 100 paesi e seppur misurandosi con regimi dittatoriali e ingiustizie di ogni genere e soprattutto con la disinformazione, la calunnia e il silenzio deliberato, ha saputo elaborare e proporre una visione dell'Umanesimo che definiamo come Universalista.

Per Umanesimo Universalista intendiamo la sottolineatura di quel particolare atteggiamento che si esprime nei seguenti punti:

  • 1. L'Essere Umano come valore e preoccupazione centrale.
  • 2. L'affermazione dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani.
  • 3. Il riconoscimento delle diversità personali e culturali.
  • 4. La tendenza a sviluppare la conoscenza al di là di quanto viene accettato come verità assoluta.
  • 5. L'affermazione della libertà di idee e credenze.
  • 6. Il ripudio della violenza.

Questo atteggiamento non è una filosofia ma una prospettiva, una sensibilità e un modo di vivere il rapporto con gli altri esseri umani. L'umanesimo universalista sostiene che in tutte le culture, nel loro miglior momento di creatività, l'atteggiamento umanista pervade l'ambiente sociale. Vengono così ripudiate la discriminazione, le guerre e, in generale, la violenza. La libertà di idee e di credenze assume forte impulso e ciò incoraggia, a sua volta, la ricerca e la creatività nella scienza, nell'arte e nelle altre espressioni sociali. In ogni caso, l'umanesimo universalista propone un dialogo non astratto né istituzionale tra culture, ma l'accordo sui punti essenziali e la reciproca collaborazione tra rappresentanti di diverse culture, basandosi su “momenti” umanisti simmetrici.

In una conferenza tenutasi a La Sapienza nell'aprile del '96, Salvatore Puledda, importante esponente del Nuovo Umanesimo, sosteneva che negli umanesimi tradizionali, riferendosi a quello rinascimentale, marxista e cristiano, si è considerato l’essere umano a partire dalla sua animalitas, cioè come un fenomeno zoologico con “qualcosa in più”.

Nell’era della tecnica, cioè nell’era attuale, quel “qualcosa di più” tende a scomparire e l’essere umano acquista definitivamente le caratteristiche di una “cosa”. In quanto cosa, in senso tecnico, il suo aspetto fondamentale è quello dell’utilizzabilità. Gli uomini sono allora “macchine biologiche” o termodinamiche, cioè forza-lavoro, produttori, consumatori, ecc. In questo fenomeno globale di “cosificazione” non c’è possibilità alcuna di fondare valori, se non quello di utilità, e l’essere umano, così come il mondo tutto, perde “senso”. E’, esiste, in un modo opaco, quotidiano, banale, ma il senso, il significato, della sua esistenza, scompare. Per Heidegger, in questo sta la radice del nichilismo e dell’immensa distruttività della società tecnologica.

L’immagine dell’essere umano come “macchina biologica” è quella attualmente dominante in Occidente; essa sta ormai raggiungendo, o forse ha già raggiunto, il livello pre-logico, cioè quel substrato sul quale vengono costruiti ed articolati i discorsi, substrato che però non viene né osservato né studiato: è il mondo dei fatti, su cui si è d’accordo a priori, e di cui mai si discute.

L'Umanesimo Universalista riformula il concetto di umanesimo e lo colloca in una prospettiva storica globalizzante, cioè in sintonia con l’epoca attuale che vede il sorgere, per la prima volta nella storia umana, di una società planetaria. Si afferma che l’umanesimo che appare con forza in Europa nell’epoca rinascimentale, rivendicando per l’essere umano dignità e centralità contro la svalutazione operata dal Medioevo cristiano, era già presente in altre culture, nell’Islam per esempio, o in India o in Cina. Certo, veniva chiamato in altro modo, dato che altri erano i parametri culturali di riferimento, ma nondimeno era implicito sotto forma di “atteggiamento” e di “prospettiva di fronte alla vita”.

Nella concezione universalista, l’umanesimo, allora, non risulta essere un fenomeno culturalmente e geograficamente delimitato, un fatto europeo, ma piuttosto un fenomeno che è sorto e si è sviluppato in diverse parti del mondo ed in diverse epoche. Proprio per questo, esso può imprimere una direzione convergente a culture diverse che, in un pianeta unificato dai mezzi di comunicazione di massa, sono ormai forzatamente e conflittivamente, a contatto l’una con l’altra.

L'Umanesimo Universalista colloca l’essere umano nella dimensione della libertà. La coscienza umana non è un riflesso passivo o deformato del mondo naturale, ma fondamentalmente attività intenzionale, attività incessante di interpretazione e ricostruzione del mondo naturale e sociale. L’essere umano, sebbene partecipi del mondonaturale in quanto ha un corpo, non è riducibile ad un semplice fenomeno naturale, non ha una natura, un’essenza definita, ma è un “progetto” di trasformazione del mondo naturale e di se stesso.

Ora mi permetto di fare una breve analisi del momento storico che stiamo attraversando. Viviamo in una situazione critica a livello mondiale, caratterizzata dalla povertà di vaste regioni, dallo scontro tra culture, dalla violenza e dalla discriminazione che contaminano la vita quotidiana di grandi settori della popolazione. Conflitti armati devastano molte zone e ora dobbiamo affrontare anche una profonda crisi del sistema finanziario internazionale. A tutto questo si aggiunge il problema più pressante, la minaccia nucleare in aumento. È un momento di enorme complessità; non solo dobbiamo prendere in considerazione gli interessi irresponsabili delle potenze nucleari e la follia di gruppi violenti, con possibilità di accesso a materiale nucleare di dimensioni ridotte, ma dobbiamo tener presente anche il rischio di un incidente che potrebbe innescare un conflitto devastante. Non si tratta della somma di singole crisi: ci troviamo davanti al fallimento globale di un sistema la cui metodologia di azione è la violenza e il cui valore centrale è il denaro. A questo punto sorge la domanda tanto cara a Lenin: che fare?

Quando ci poniamo la domanda del che fare ci poniamo il tema della metodologia d'adottare nel perseguire l'obiettivo di trasformazione della società in cui viviamo. Da questo punto di vista risulta essere molto importante approfondire due concetti tanto discussi quando ci si occupa di operare un cambiamento, in altre parole: la violenza e la nonviolenza.

Per trattare questi due argomenti mi collego a quanto detto poc'anzi. Si è definito l'essere umano con la caratteristica, del tutto umana, di scegliere e differire risposte. Questa possibilità gli è data grazie alla capacità di andare oltre le proprie necessità immediate e quindi prevedere, progettare un futuro relazionandosi all'esperienza non solo personale ma storico-sociale.

Questa grande libertà di scelta gli consente quindi di adottare differenti comportamenti. Da questo punto di vista non si può parlare di violenza e di nonviolenza nel mondo animale e vegetale, dove invece vige una trasmissione di esperienza limitata e comportamenti mossi da riflessi riconducibili al piano dell'istinto o dell'imprinting genetico. Sottoporre quindi alla critica la scelta tra nonviolenza e violenza rappresenta il primo tentativo per affermarsi propriamente umano.

Mosso dalla necessità di superare il dolore e la sofferenza l'essere umano ha costruito un mondo di oggetti, simboli e significati, propriamente umani. Ha costruito il mondo sociale in cui viviamo. E' nella produzione e conseguente utilizzazione di oggetti che la violenza fa la sua apparizione. L'essere umano, nel tentativo di superare le condizioni di disagio fisico e mentale, ha cominciato ad utilizzare altri esseri umani, come degli oggetti. Per fare ciò ha dovuto necessariamente svuotarli della loro umanità.

Questa cosificazione è la violenza.

Una violenza che si manifesta in diverse forme: fisica, economica e psicologica, e nei suoi correlati di discriminazione razziale, politica, religiosa, sessuale e si sviluppa in tutti i campi del vivere sociale dell'essere umano. La violenza fisica è diretta al corpo dell'altro allo scopo di annientare, sottomettere o più semplicemente eliminare l'altro. La violenza economica è diretta a sottrarre i mezzi di sussistenza dell'altro per ottenere il ricatto utile alla sottomissione. La violenza psicologica è diretta alla mente dell'altro permettendo di costruire falsi bisogni, false credenze funzionali all'oppressore, al fine di ottenere una sottomissione che non comporti la ribellione da parte dell'oppresso. E' una forma di violenza subdola che trasferisce le catene della violenza dal piano del tangibile al piano dell'intangibile. Si svuota l'essere umano della sua umanità senza evidenti resistenze. In questo senso quindi, la violenza è la negazione della libertà e dell'umanità dell'altro. Si differisce quindi dalle tesi che affermerebbero la violenza come un fattore naturale, legata a condizioni nella produzione sociale, esterne all'essere umano o più ingenuamente legata a comportamenti più o meno aggressivi. La violenza è quindi una scelta che nell'oppressore, disumanizzato anch'esso dal processo di cosificazione (da lui stesso messo in moto), viene interpretata come efficace. E' questa illusoria e forse temporanea efficacia che produce nell'atteggiamento violento il suo reiterarsi progressivo.

Per quanto detto finora la nonviolenza rappresenta la sola risposta comportamentale efficace al bisogno di superare le condizioni di dolore fisico e sofferenza mentale. Non si tratta quindi di dimostrare il valore morale della nonviolenza ma di prendere contatto con il registro di cosificazione che posso avvertire non solo quando sono oggetto di violenza ma anche quando sono artefice di violenza. La violenza mi disumanizza e mi rende un fenomeno non riconducibile al mondo umano, né animale, né vegetale. E' ovvio che qui non parliamo di nonviolenza come un atteggiamento passivo e remissivo. Una condizione cioè che aspira all'assenza del conflitto, al di là dei compromessi che questo comporta. La nonviolenza è in conflitto permanente, permanente nella misura in cui si scontra con la violenza personale e sociale, interna o esterna all'essere umano.

L'azione nonviolenta ha come bersaglio di liberazione l'oppresso e l'oppressore. Perché in questa lotta tra oppressi e oppressori, entrambi i soggetti sono sottomessi alla violenza. Non mancherà mai il violento che per giustificare i propri atti si appellerà a cause di forza maggiore, entità superiori o a valori supremi, quasi a dire che le sue azioni sono il frutto di volontà ineluttabili e dalle quali non si può sottrarre.

Con la nonviolenza quindi si rompe questo schema. Uno dei soggetti, il soggetto apparentemente più debole, rompe la catena e col suo agire aspira a una trasformazione dei rapporti di forza.

Infine, in termini esperienziali, la nonviolenza produce un avanzamento, un'apertura verso nuovi orizzonti fino a quel momento sconnessi. Si avverte la consapevolezza di una forza che nasce dal profondo e che oltrepassa gli apparenti limiti consentiti di spazio e di tempo. Ci si riappropria della propria umanità e delle infinite possibilità. In questo senso la nonviolenza mostra a chi la compie, la sua validità in sé, a prescindere dal risultato che all'esterno si possa produrre. Spesso s'incontrano persone che malgrado si definiscano contrari alla violenza non esitano a citare casi in cui ammettono una risposta violenta. Riportano episodi in cui cercano di dimostrare come almeno in certi casi la violenza è necessaria. Ma queste persone sembrano non tener conto di fattori che si manifestano in qualsiasi conflitto anche il più banale e meno cruento.

Il primo fra tutti è il rapporto di forza. In un conflitto violento, i contendenti misurano le loro forze, studiano il nemico, osservano i punti forti e i punti deboli. Il violento insomma quando agisce lo fa in base ad una analisi, più o meno corretta, che lo giudica in condizione di vantaggio o svantaggio rispetto all'altro. Se non si trovasse in condizione di vantaggio, anche il violento più convinto è costretto ad indietreggiare o a soccombere. In questo caso non c'è risposta violenta efficace che tenga. Ovviamente possiamo annoverare casi in cui la rabbia e l'odio hanno offuscato a tal punto le menti che quell'analisi sui rapporti di forza non viene presa in considerazione. Le conseguenze di tali impulsi sono facilmente immaginabili.

Un altro fattore che non si tiene conto è il progresso della violenza, inteso qualitativamente e non semplicemente quantitativamente. Le forme e gli strumenti attraverso le quali la violenza si è espressa nella storia umana in certi campi, come quello della guerra per esempio, hanno subito un'enorme trasformazione rendendosi sempre più complessi e avanzati e non solo dal punto di vista tecnologico.

Malgrado l'essenza della violenza non sia cambiata, la violenza è passata dalla clava alla bomba atomica fino all'instaurarsi su scala planetaria di un sistema finanziario estremamente sofisticato che produce violenza fisica, economica e psicologica in forma permanente, sulla maggioranza della popolazione mondiale1).

Quindi, rispondere in maniera violenta ad un carrarmato utilizzando archi e frecce, armi micidiali fino all'avvento della polvere da sparo, vedrebbe Golia vincitore innumerevoli volte.

Sembra ovvio quindi, che la risposta violenta si adatta al momento storico e al rapporto di forze in campo. In un conflitto non tener conto di questi fattori comporta gravi conseguenze.

Un ultimo fattore da tener conto nella risposta violenta è la sua preparazione. La risposta violenta in certi casi necessita una particolare progettazione e organizzazione. Questa necessità è quanto mai evidente con la guerra in cui oggi osserviamo come un tempo, non solo una preparazione sul piano degli armamenti necessari o la definizione di strategie e tattiche da adottare in battaglia ma anche e soprattutto la lenta manipolazione delle coscienze affinché si crei un terreno fertile, nell'opinione pubblica, all'intervento armato.

Questi fattori non sono una prerogativa esclusiva della violenza ma anche della nonviolenza. Anche la nonviolenza per esser efficace ha bisogno di trovarsi in condizione di vantaggio. Anche la nonviolenza deve misurarsi con il rapporto di forze e soprattutto anche la nonviolenza deve adattarsi ai tempi e ai modi propri dell'epoca. Se in India, non per scelta, la maggioranza della popolazione aveva l'esperienza del digiuno e di cosa questo comportasse, per Ghandi lo sciopero della fame rappresentò un valido strumento per arrestare la violenza fratricida tra indù e musulmani. Non si può immaginare che possa avere la stessa portata ed efficacia in un contesto occidentale e opulento ove l'esperienza del digiuno è quanto mai rara. Anche per l'azione nonviolenta il grado di preparazione e di organizzazione della stessa influisce sulla sua efficacia. Queste semplici constatazioni ci permettono di comprendere come l'efficacia della nonviolenza attiva si fonda sempre sul principio di opportunità dell'azione. Questo comporta una continua messa in discussione della metodologia della nonviolenza attiva alla ricerca di sempre nuove forme che meglio si adattino ai tempi e ai rapporti di forza.

In ultimo, così come nello scontro tra violenti, i contendenti mettono in conto la sconfitta e quindi la possibilità di esser fatto prigioniero, di esser torturato o di morire, anche il nonviolento tiene in conto di queste possibilità e malgrado cerchi di sottrarsi a queste eventualità non esclude che ciò possa accadere.

In sintesi, ciò che differisce il violento dal nonviolento non si evince semplicemente dalle sue forme di lotta ma dagli obiettivi che questi si prefiggono. In questo senso non esiste un'azione nonviolenta fallimentare, dato che l'azione nonviolenta al di là del risultato rompe con la catena della violenza, ma se proprio si deve dare un giudizio di merito all'azione nonviolenta, questo si riferirà alla sua efficacia nell'ambito sociale in cui questa si attua. Adottare un comportamento nonviolento in maniera dominante, cioè in tutti gli atti che si portano nel mondo, appartiene al campo delle aspirazioni e malgrado si possa condividere la necessità e il valore della nonviolenza ci si scontra con la difficoltà nella sua applicazione.

Nascendo in un contesto sociale essenzialmente violento, in un individuo le tattiche e le strategie per superare il dolore e la sofferenza, meccanicamente seguono la stessa matrice. Si osserva come nella storia di un individuo i comportamenti violenti, che un tempo erano il frutto di una scelta, si trasformano lentamente, in meccaniche e abitudini. Si può osservare come queste meccaniche hanno la loro radice in un sistema d'immagini che includono e danno valore alla violenza. Si tratta di meccanismi compensatori e quindi legati alle necessità basiche di sopravvivenza.

In altre parole, la violenza si è dapprima configurata come una necessità di sopravvivenza e in questo senso tramandata, e poi si è installata come un comportamento meccanico dal quale, per liberarsi, non basta la semplice constatazione intellettuale, seppur necessaria.

La nonviolenza, per installarsi come comportamento dominante, deve sostituirsi alla violenza in quel sistema d'immagini. In altre parole, la violenza dovrebbe essere avvertita come un comportamento che minaccia profondamente l'equilibrio psicofisico. Dovrebbe nascere una sorta di disgusto quasi viscerale, lo stesso che si prova di fronte a certi sapori e a certi odori che la memoria genetica ci ha portato a giudicare come pericolosi.

Il contesto sociale ovviamente gioca in questa trasformazione personale un ruolo determinante ed è incoraggiante osservare come la nonviolenza si faccia strada nella coscienza umana malgrado sia ancora molto il lavoro che si richiede. Da questo punto di vista l'iniziativa promossa da Mondo Senza Guerre, organismo del Movimento Umanista, di una Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza risulta essere un'occasione per costruire una coscienza rivoluzionaria e nonviolenta.

La Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza avrà inizio il 2 ottobre 2009 a Wellington in Nuova Zelanda e terminerà a Punta de Vacas in Argentina ai piedi del Monte Aconcagua il 2 gennaio 2010. La Marcia Mondiale in questa particolare epoca di crisi per l'umanità sarà portatrice delle seguenti idee:

  • il disarmo nucleare a livello mondiale,
  • il ritiro immediato delle truppe di invasione dai territori occupati,
  • la riduzione progressiva e proporzionale delle armi convenzionali,
  • la firma di trattati di non aggressione tra paesi, e
  • la rinuncia dei governi a utilizzare le guerre come metodo di risoluzione dei conflitti.

La Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza sta già ispirando diverse iniziative e attività che nei prossimi mesi dovranno moltiplicarsi. Una di esse sarà la marcia simbolica di un gruppo multinazionale e multiculturale che percorrerà i sei continenti. In tutto questo periodo, in centinaia di città si realizzeranno marce, festival, forum, conferenze e altri eventi per far prendere coscienza sull'urgenza della Pace e della Nonviolenza. In tutto il mondo le campagne di adesione alla Marcia moltiplicheranno questo segnale al di là di quanto possiamo immaginare oggi.

Per la prima volta nella storia un evento di queste proporzioni si mette in moto per iniziativa della gente. La vera forza di questa Marcia nasce dall'atto semplice e cosciente di chi aderisce ad una causa degna e la condivide con altri. È urgente creare una coscienza a favore della pace e del disarmo, ma è necessario anche risvegliare la coscienza della nonviolenza, che ci consenta di rifiutare non solo la violenza fisica, ma anche ogni altro tipo di violenza (economica, razziale, psicologica, religiosa, sessuale, ecc.).

Questa nuova sensibilità potrà instaurarsi e scuotere le strutture sociali, aprendo la strada alla futura Nazione Umana Universale. Oggi, si richiede un nuovo salto nella costruzione della nonviolenza. Anche questo non sarà simultaneo in tutti gli esseri umani. Anche questo non incontrerà la condivisione di tutti ma come in passato il Destino dell'Essere Umano inesorabilmente raggiungerà il suo epilogo.

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1) E' interessante osservare come in campo finanziario venga impiegata un'enorme quantità di energia intellettuale. Energia che serve a far funzionare un sistema mondiale estremamente complesso. Il paradosso è che in molte menti “eccelse”, la violenza del sistema è arrivata al punto da fargli credere che il contribuire con il proprio sforzo intellettuale a questo mastodontico meccanismo significa operare per il benessere dell'umanità!
eventi/festival09/vito.txt · Ultima modifica: 2013/02/13 17:26 da fulvio