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Annuario del Centro Studi Umanista Mondiale (1994)

COSA INTENDIAMO OGGI PER UMANESIMO UNIVERSALISTA di Silo

Comunità Emanu-El, sede del giudaismo liberale in Argentina, Buenos Aires 24/11/1994

Ringrazio la comunità Emanuel-El e il rabbino Sergio Bergman per l'opportunità che mi offrono di parlare oggi qui. Ringrazio per la loro presenza i membri della comunità, gli espositori del presente ciclo e, in generale, gli amici dell'umanesimo.

Il titolo della presente dissertazione afferma l'esistenza di un umanesimo universale ma questa affermazione, senza dubbio deve essere provata. Per questo bisognerà considerare cosa si intende per “umanesimo”, poiché non c'è un accordo generale sul significato di questa parola e, d'altra parte, sarà necessario discutere se l'“umanesimo” è proprio di un punto, di una cultura, o se appartiene alle radici e al patrimonio di tutta l'umanità. Sarà conveniente, per cominciare, esplicitare i nostri interessi rispetto a questi temi, poiché al non farlo si potrebbe pensare che siamo motivati semplicemente dalla curiosità storica o da qualsiasi genere di trivialità culturale.

L'Umanesimo ha per noi l'accattivante merito di essere non solo storia ma anche progetto di un mondo futuro e strumento di azione attuale. Ci interessa un umanesimo che contribuisca al miglioramento della vita, che faccia fronte alla discriminazione, al fanatismo, all'esplosione e alla violenza. In un mondo che si globalizza velocemente e che mostra i sintomi dello scontro tra culture, etnie e regioni, deve esistere un umanesimo universalista, plurale e convergente. In un mondo in cui si destrutturano i paesi, le istituzioni e le relazioni umane deve esistere un umanesimo capace di spingere verso la ricomposizione delle forze sociali. In un mondo in cui si sono persi il senso e la direzione della vita deve esistere un umanesimo adatto a creare una nuova atmosfera di riflessione in cui non si oppongano in modo irriducibile il personale al sociale, né il sociale al personale. Ci interessa un umanesimo creativo, non un umanesimo ripetitivo; un nuovo umanesimo che, tenendo in considerazione i paradossi dell'epoca, aspiri a risolverli. Questi argomenti, in alcuni casi apparentemente contraddittori, emergeranno con maggiore dettaglio nel corso di questa esposizione.

Chiedendo “Cosa intendiamo oggi per umanesimo?” stiamo puntando all'origine e anche allo stato attuale della questione.

Cominciamo da ciò che riconosciamo storicamente in Occidente, lasciando le porte aperte a quanto successo in altre parti del mondo in cui l'atteggiamento umanista era già presente prima del conio di parole come “umanesimo”, “umanista” e tante altre del genere. Nel riferirmi all'atteggiamento che menziono, e che è posizione comune degli umanisti delle diverse culture, devo sottolineare le seguenti caratteristiche: 1.- ubicazione dell'essere umano come valore e preoccupazione centrale; 2.- affermazione dell'uguaglianza di tutti gli esseri umani; 3.- riconoscimento della diversità personale e culturale; 4.- tendenza allo sviluppo della conoscenza sopra all'accettazione come verità assoluta; 5.- affermazione della libertà di idee e credenze; 6.- ripudio della violenza.

Addentrandoci nella cultura europea, in modo particolare in quella dell'Italia pre-rinascimentale, osserviamo che lo “studia humanitatis” (studio delle umanità) era riferito alla conoscenza delle lingue greca e latina, mettendo particolare enfasi sugli autori “classici”. Le “umanità” comprendevano storia, poesia, retorica, grammatica, letteratura e filosofia morale. Trattavano di questioni genericamente umane, a differenza delle materie proprie dei “giuristi”, “canonici”, “uomini di legge” e “artisti” che erano destinati a una formazione specificatamente professionale. Quindi anche questi ultimi utilizzavano per il loro apprendistato elementi propri delle umanità, ma i loro studi erano diretti verso applicazioni pratiche proprie dei loro rispettivi ruoli. La differenza tra “umanisti” e “professionisti” si acuì nella misura in cui i primi enfatizzarono gli studi classici e la ricerca di altre culture, separando dall'inquadramento professionale un interesse per tutto ciò che era genericamente umano e per le cose umane. Questa tendenza si sviluppò fino ad entrare in campi molto lontani da ciò che veniva accettato in quel momento come “umanità”, dando luogo alla grande rivoluzione culturale del Rinascimento. In realtà l'atteggiamento umanista aveva già cominciato a svilupparsi molto prima e di questo possiamo trovare traccia nei temi trattati dai poeti goliardi e dalle scuole delle cattedrali francesi del XII secolo.

Ma la parola “umanista”, che designava un certo tipo di studioso, si cominciò ad usare in Italia solo nel 1538. A questo punto rimando alle osservazioni di A. Campana nel suo articolo “The origin of the Word 'Humanist'”, pubblicato nel 1946. Con quanto detto precedentemente, sto sottolineando che i primi umanisti non si riconoscevano sotto questa designazione che, invece, prenderà corpo molto più avanti. E qui bisognerà sottolineare che parole affini come humanistische (umanistico), in accordo agli studi di Walter Rüegg, cominciano ad essere utilizzate nel 1784 e humanismus (umanesimo) comincia a diffondersi a partire dai lavori di Niethammer del 1808. E' nella metà del secolo scorso che il termine “umanesimo” circola in quasi tutte le lingue. Stiamo parlando, di conseguenza, di designazioni recenti e di interpretazioni di fenomeni che sicuramente furono vissuti dai loro protagonisti in un modo molto diverso da come li considerò la storiologia o la storia della cultura del secolo scorso. Questo punto non mi sembra ozioso e vorrei riprenderlo più avanti, considerando i significati che ha avuto fino ad oggi l'umanesimo.

Se mi si permette una digressione, dirò che oggi ci troviamo ancora con quel substrato storico e con le differenze tra gli studi delle umanità che si impartiscono nelle facoltà o istituti di studi umanistici, e il semplice atteggiamento di persone non definite dalla loro dedizione professionale ma per la loro posizione rispetto all'umano come preoccupazione centrale. Quando oggi qualcuno si definisce come “umanista” non lo fa riferendosi ai suoi studi di “umanità” e, allo stesso modo, uno studente o uno studioso di “umanità” non per questo si considera “umanista”. L'atteggiamento “umanista” è diffusamente compreso come qualcosa di più ampio, quasi totalizzatore, al di là delle specializzazioni universitarie.

Nel mondo accademico occidentale si suole chiamare “umanesimo” questo processo di trasformazione della cultura che cominciando in Italia, in particolare a Firenze, tra la fine del '300 e l'inizio del '400 terminò nel Rinascimento con la sua espansione in tutta Europa. Questa corrente apparve legata alle humanae litterae (che erano gli scritti riferiti alle cose umane), in contrapposizione alle divinae litterae (che mettevano l'accento sulle cose divine). E questo è uno dei motivi per cui i suoi rappresentanti si chiamano “umanisti”. Da questa interpretazione l'umanesimo è, nella sua origine, un fenomeno letterario con una tendenza chiara a riprendere i contributi della cultura greco-latina, asfissiati dalla visione cristiana medievale. Si deve notare che la nascita di questo fenomeno non fu dovuta semplicemente al cambiamento endogeno dei fattori economici, sociali e politici della società occidentale, ma questa ricevette influenze trasformatrici da altri ambienti e civilizzazioni. L'intenso contatto con le culture ebrea e musulmana e l'ampliamento dell'orizzonte geografico fecero parte di un contesto che incentivò la preoccupazione per l'umano in generale e per le scoperte delle cose umane.

Credo che S. Puledda riesca bene a spiegare, nel suo Interpretazioni Storiche dell'Umanesimo, che il mondo europe medievale pre-umanista era un ambiente chiuso dal punto di vista temporale e fisico che tendeva a negare l'importanza del contatto che si dava, di fatto, con altre culture. La storia, dal punto di vista medievale, è la storia del peccato e della redenzione; la conoscenza di altre civilizzazioni non illuminate dalla grazia di Dio non riveste grande interesse. Il futuro prepara semplicemente l'Apocalisse e il giudizio di Dio. La Terra è immobile e sta al centro dell'universo, seguendo la concezione tolemaica. Tutto è circondato dalle stelle fisse e le sfere planetarie girano animate da forze angeliche. Questo sistema termina nell'empireo, sede di Dio, motore immobile che muove tutto. L'organizzazione sociale corrisponde a questa visione: una struttura gerarchica ed ereditaria differenzia i nobili dai servi. Al vertice della piramide ci sono il Papa e l'Imperatore, a volte alleati, a volte in lotta per il predominio gerarchico. Il regime economico medievale, per lo meno fino all'XI secolo, è un sistema economico chiuso fondato sul consumo del prodotto nel luogo di produzione. La circolazione monetaria è scarsa. Il commercio è difficile e lento. L'Europa è una potenza continentale rinchiusa perché il mare, come via di traffico, è in mano ai bizantini e agli arabi.

Ma i viaggi di Marco Polo e il suo contatto con le culture e la tecnologia dell'estremo oriente; i centri di insegnamento della Spagna, dove i maestri ebrei, arabi e cristiani irradiano conoscenza; la ricerca di nuove strade commerciali che eludano la barriera del conflitto bizantino-musulmano; la formazione di una fascia mercantile sempre più attiva; la crescita di una borghesia cittadina più potente e il perfezionamento di istituzioni politiche più efficienti come le signorie dell'Italia, vanno segnando un cambiamento profondo nell'atmosfera sociale, e questo cambio permette lo sviluppo dell'atteggiamento umanista. Non si deve dimenticare che questo processo ammette numerosi progressi e retrocessioni fino a quando il nuovo atteggiamento si rende cosciente. Cento anni dopo Petrarca (1304-1374), esiste una conoscenza dieci volte maggiore dei classici che nel periodo precedente di mille anni. Petrarca cerca nei codici antichi tentando di correggere una memoria deformata e con lui comincia una tendenza di ricostruzione del passato e un nuovo punto di vista del fluire della storia, ostacolato dall'immobilismo dell'epoca.

Un altro dei primi umanisti, Manetti, nella sua opera De Dignitate et Excellentia Hominis (la dignità e l'eccellenza degli uomini), rivendica l'essere umano contro il “Contemptu Mundi”, il disprezzo del mondo, predicato dal monaco Lotario (poi Papa, conosciuto come Innocenzo III). A partire da là, Lorenzo Valla nel suo De Voluptate (il piacere), attacca il concetto etico del dolore, vigente nella società del suo tempo. E così, mentre avviene il cambiamento economico e si modificano le strutture sociali, gli umanisti rendono cosciente questo processo generando una cascata di produzioni in cui si profila questa corrente che sorpassa l'ambito culturale e che finisce mettendo in discussione le strutture del potere in mano alla Chiesa e al monarca.

Numerosi specialisti hanno sottolineato che già nell'umanesimo pre-rinascimentale appare una nuova immagine dell'essere umano e della personalità umana. Questa si costruisce e si esprime per mezzo dell'azione ed è in questo senso che si dà speciale importanza alla volontà rispetto all'intelligenza speculativa. D'altra parte emerge un nuovo atteggiamento di fronte alla natura. Questa non è una semplice creazione di Dio e una valle di lacrime per i mortali, ma l'ambiente dell'essere umano e, in alcuni casi, la sede e il corpo di Dio. Infine, questa nuova posizione di fronte all'universo fisico rafforza lo studio dei diversi aspetti del mondo materiale, tendente a spiegarlo come un insieme di forze immani che non richiedono concetti teologici per la loro comprensione. Questo mostra già un chiaro orientamento verso la sperimentazione e una tendenza al dominio delle leggi naturali. Il mondo adesso è il regno dell'uomo e questi deve dominarlo mediante la conoscenza delle scienze.

In base all'orientamento commentato, gli studi del XIX secolo inquadrarono non solo numerose personalità letterarie del Rinascimento come “umanisti”, ma insieme a Nicola Cusano, Rodolfo Agricola, Juan Reuchlin, Erasmo, Tommaso Moro, Jacques Lefevre, Charles Bouillè, Juan Vives, collocarono anche Galileo e Leonardo.

E' noto che molti temi introdotti dagli umanisti perdurano e finiscono per ispirare gli enciclopedisti e i rivoluzionari del XVIII secolo. Ma dopo le rivoluzioni americana e francese comincia quel declino in cui l'atteggiamento umanista viene sommerso. L'idealismo critico, l'idealismo assoluto e il romanticismo, ispiratori a loro volta di filosofie politiche assolutiste, hanno tralasciato l'essere umano come valore centrale per convertirlo in epifenomeno di altre forze. Questa cosificazione, questo “lui” al posto di un “tu”, come sottolineerà acutamente Martin Buber, si installano a livello planetario. Ma le tragedie delle due guerre mondiali sconvolgono completamente le società e risorge di fronte all'assurdo la domanda sul significato dell'essere umano. Questo si rende presente nelle cosiddette “filosofie dell'esistenza”. Sulla situazione contemporanea dell'umanesimo tornerò alla fine di questa esposizione.

Per ora vorrei sottolineare alcuni aspetti fondamentali dell'umanesimo in cui troviamo il suo atteggiamento antidiscriminatorio e la sua tendenza all'universalità. Il tema della mutua tolleranza e della successiva convergenza è molto caro all'umanesimo e, per questo, vorrei portare nuovamente davanti a voi quanto spiegato dal Dr. Bauer nella sua conferenza del 3 novembre. Egli ha detto: ”…nella società feudale musulmana, in particolare in Spagna, la situazione degli ebrei era molto diversa. Non si può parlare della loro emarginazione sociale, come neanche di quella dei cristiani. E solo eccezionalmente potevano nascere tendenze che oggi chiameremmo “fondamentaliste”. La religione dominante non si identificava con l'ordine sociale nella stessa misura in cui succedeva nell'Europa cristiana. Qui non è neanche corretto il termine di “divisione ideologica”, sebbene esistessero, parallelamente e con mutua tolleranza, differenti culti. Nelle scuole e nelle università andavano tutti insieme, cosa inconcepibile nella società medievale cristiana. Il grande Maimonides era nella sua gioventù discepolo e amico di Ibn Roshd (Averroé). E se più tardi gli ebrei e lo stesso Maimonides soffrirono di pressioni e persecuzioni da parte dei fanatici di origine africana che si erano appropriati del potere in El-Andalus, neanche il filosofo arabo che per loro era eretico si salvò dalle stesse. In una tale atmosfera poteva nascere un ampio e profondo umanesimo, tanto da parte dei musulmani come degli ebrei… In Italia la situazione era uguale, non solo sotto il breve impero dell'Islam sulla Sicilia, ma ugualmente anche dopo e per molto tempo sotto il dominio diretto del Papato. Un monarca di origine tedesca, l'imperatore Federico II di Hohenstaufen, residente in Sicilia ed egli stesso poeta, ebbe l'audacia di proclamare per il suo regno una radice ideologica tripartita: cristiana, ebrea e musulmana, e attraverso quest'ultima, la continuità con la filosofia classica greca.” Fino a qui la citazione.

Per quanto riguarda l'umanesimo nelle culture ebrea e araba non ci sono maggiori difficoltà nel rintracciarlo, ma vorrei solamente portare qui alcune osservazioni dell'accademico russo Artur Sagadeev nella conferenza che ha tenuto a Mosca nell'agosto scorso su “L'umanesimo nel pensiero classico musulmano”. Egli mise in evidenza che ”… la percentuale di città con una popolazione superiore ai centomila abitanti ciascuna in Mesopotamia e in Egitto nei secoli VIII e IX, superava quella delle città dei paesi dell'Europa Occidentale del secolo XIX, come i Paesi Bassi, l'Inghilterra, il Galles o la Francia. Secondo i calcoli più accurati, Baghdad in quel tempo contava 400.000 abitanti e la popolazione di città come Cordoba e Alessandria era compresa tra i cento e i duecentomila abitanti ciascuna. La concentrazione nelle città di grandi risorse, provenienti dal commercio e dalle tasse, determinò il sorgere di una frangia piuttosto numerosa di intellettuali medievali, il che a sua volta rese agile la vita spirituale, la prosperità della scienza, della letteratura e dell'arte. Bisogna sottolineare che il mondo musulmano medievale non conobbe una divisione tra cultura urbana e cultura opposta agli abitanti delle città per ciò che riguarda i suoi orientamenti di valore, così come quelli che rappresentarono in Europa gli abitanti dei monasteri e quelli dei castelli-città. I portatori dell'educazione teologica e i gruppi sociali, analoghi a quelli feudali in Europa, nel mondo musulmano vivevano nelle città e sperimentavano la grande influenza della cultura urbana. Riguardo agli orientamenti di valore degli abitanti delle città musulmane possiamo giudicare in base al gruppo di riferimento, che in generale si voleva imitare, il quale incarnava i caratteri di conoscenza e di morale che i greci indicavano nella parola 'paideia' e i latini nella parola humanitas. I divulgatori delle idee umaniste insistevano sul destino terreno dell'essere umano, e questo conduceva a volte allo scetticismo religioso e all'apparizione di gente alla moda, che ostentava il proprio ateismo. Questi riferimenti acquisirono grande importanza quando il Califfato, per la prima volta da Alessandro Magno, si convertì in un centro di interrelazione di differenti tradizioni culturali e di differenti gruppi confessionali, sparsi dal Mediterraneo fino al mondo indo-iraniano. Nel periodo di prosperità della cultura musulmana medievale, per questi riferimenti sociali era un'esigenza la conoscenza della cultura antica mentre, d'altra parte, si sviluppavano programmi di educazione elaborati da scienziati greci. Per la realizzazione di tali programmi, i musulmani disponevano di enormi possibilità. Basti dire che secondo il calcolo degli specialisti, nella sola Cordoba si concentravano più libri che in tutta Europa. La trasformazione del Califfato in centro di influenze reciproche con altre culture nella miscela di differenti gruppi etnici, contribuiva alla formazione di un nuovo elemento dell'umanesimo: l'universalismo come idea dell'unità del genere umano. Nella vita reale alla formazione di questa idea corrispose il fatto che le terre abitate dai musulmani si estendevano dal fiume Volga a nord fino al Madagascar a sud; dalla costa atlantica africana a occidente fino alla costa pacifica asiatica a oriente. Sebbene con il trascorrere del tempo la presenza musulmana si andò disintegrando e i piccoli stati formati sulle sue rovine furono simili ai possedimenti dei successori di Alessandro, i fedeli dell'Islam vivevano uniti da una sola religione, una lingua letteraria comune, una sola legge, una sola cultura. Nella vita quotidiana comunicavano e interscambiavano valori culturali di differenti gruppi confessionali molto diversi tra loro. Lo spirito dell'universalismo dominava in molti circoli scientifici unendo musulmani, cristiani, ebrei e atei che condividevano interessi intellettuali comuni e che arrivavano dai diversi angoli del mondo musulmano. Li avvicinava l'ideologia dell'amicizia proprio come era successo in precedenza nelle scuole filosofiche dell'Antichità come quelle degli stoici, degli epicurei, dei neoplatonici, ecc. e del Rinascimento italiano come il circolo di Marsilio Ficino. Nelle discussioni organizzate da alcuni teologi e nelle quali molti dei partecipanti erano di differenti confessioni, era regola fondamentare l'autenticità delle tesi non con riferimenti ai testi sacri, poiché questi erano diversi, ma appoggiandosi esclusivamente alla ragione umana”. La lettura che termino di fare del contributo di Sagadeev non contempla la ricchezza descrittiva che questo studioso fa dei costumi, della vita quotidiana, dell'arte, della religiosità, del diritto e dell'attività economica del mondo musulmano nell'epoca del suo splendore umanista.

Vorrei passare ora a un altro lavoro, anch'esso di un accademico russo specialista in culture dell'America. Il professor Sergei Seemenov nella sua monografia del settembre scorso, intitolata Tradizioni e innovazioni umaniste nel mondo ispano-americano, fa una messa a fuoco completamente nuova nella ricerca dell'atteggiamento umanista nelle grandi culture dell'America precolombiana. Vi lascio alle sue parole: ”… Quando parliamo di tendenze umaniste nel mondo precolombiano, possiamo fare un'analisi prima di tutto prendendo il materiale di opere artistiche, opere di massa e opere professionali che si esprimono in monumenti della cultura materiale e che si fissano nella memoria del popolo… Gli elementi culturali che stiamo ricercando in questo continente si differenziano molto dalle tradizioni del mondo euro-asiatico ma li avvicina l'universalismo, il riconoscimento dell'unità di tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro posizione tribale o sociale. Possiamo rintracciare questi elementi tanto in America centrale quanto nell'America del Sud nella tappa precolombiana. Accompagnati dai miti, entreremo in un mondo culturale che poi dovrà svilupparsi nelle produzioni concrete. Il primo mito è quello di Quetzalcoatl e il secondo quello di Wiracocha, due divinità che rifiutavano i sacrifici umani che erano piuttosto frequenti prima dell'arrivo degli europei. I miti e le leggende indigeni, le cronache spagnole e i monumenti della cultura materiale dimostrano che il culto di Quetzalcoatl, che appare tra il 1200 e il 1100 prima della nostra era, si lega nella coscienza dei popoli della regione con la lotta contro i sacrifici umani e con norme morali contro l'omicidio, il furto e le guerre. Secondo una serie di leggende, il governante tolteca della città di Tula, Tzeacatl Tokilzan, che adottò il nome di Quetzalcoatl e che visse nel secolo X della nostra era, aveva le caratteristiche dell'eroe culturale. Secondo le leggende, egli insegnò l'oreficeria, proibì i sacrifici umani e sostituì il sacrificio agli dei con la donazione solamente di fiori, pane e profumi. Aveva l'aspetto di un uomo bianco ma non era biondo bensì moro. Alcuni raccontano che se ne andò verso il mare e altri che si incendiò in una fiamma ascendendo al cielo, lasciando la speranza del suo ritorno plasmata nella stella mattutina. A questo eroe si attribuisce l'affermazione in America centrale dello stile di vita umanista denominato toltecayotl, che fu assimilato non solo dai toltechi ma anche dai popoli vicini e da quelli che ereditarono le tradizioni tolteche. Questo stile di vita si basava sui principi di fratellanza tra gli esseri umani, sull'elevato perfezionamento del lavoro, sulla venerazione per l'onestà, sul mantenimento della parola data, sullo studio dei segreti della natura e sulla visione del mondo ottimista. Le leggende dei popoli maya dello stesso periodo testimoniano l'attività del governante o sacerdote della città di Chichen-Itza, il quale aveva il nome di Cucul-Can, l'equivalente maya di Quetzalcoatl. Abbiamo un altro rappresentante della tendenza umanista in America centrale nella persona di un governante della città di Tezcoco, il poeta Mesahuatl Coyotl che visse tra il 1402 e il 1472. Anch'egli rifiutò i sacrifici umani, cantò l'amicizia tra i popoli ed esercitò una profonda influenza nella cultura delle popolazioni del Messico. In America del sud osserviamo un movimento analogo all'inizio del XV secolo. Questo movimento si lega al nome dell'Inca Cuzi Yupanqui che ricevette la designazione di “riformatore” e di suo figlio Tupac Yupanqui. Come in America centrale, il riformatore prese il nome di un dio, in questo caso di Wiracocha. Sono note le norme morali secondo le quali si reggeva la società di Tawantisuyu che, in larga misura, erano in relazione con le riforme di Cuzi Yupanqui, che come Tokilzan, aveva le caratteristiche dell'eroe culturale.” E fino a qui la citazione di un lavoro ovviamente molto più esteso e sostanzioso.

Con la lettura di questi due frammenti ho voluto raccogliere esempi di ciò che chiamiamo “atteggiamento umanista” in regioni molto lontane e che, ovviamente, possiamo trovare in periodi precisi di differenti culture. E dico “in periodi precisi” perché tale atteggiamento non è permanente ma sembra retrocedere e avanzare in modo ciclico lungo la storia fino a che molte volte scompare definitivamente nei tempi senza ritorno che precedono il collasso di una civilizzazione. Comprenderete che stabilire vincoli tra le civilizzazioni attraverso i loro “momenti umanisti” è un compito vasto ma di grande portata. Se oggi i gruppi etnici e religiosi ripiegano su se stessi per ottenere una forte identità, abbiamo in moto una specie di sciovinismo culturale o regionale che minaccia di scontrarsi con altre etnie, culture o religioni. E se ognuno ama il suo popolo e la sua cultura, si può anche comprendere che in esso e nelle sue radici è esistito o esiste questo “momento umanista” che lo rende, per definizione, universale e simile all'altro col quale si confronta. Si tratta quindi di differenze che non potranno essere spazzate via dagli uni o dagli altri. Si tratta di differenze che non sono una remora, né un difetto né un regresso, ma che costituiscono la ricchezza stessa dell'umanità. In realtà non sta lì il problema, ma nella possibile convergenza di tali differenze in base alla considerazione dei comuni “momenti umanisti”.

Vorrei infine riprendere lo stato della questione umanista nel momento attuale. Abbiamo detto che dopo le due catastrofi mondiali i filosofi dell'esistenza riaprirono il dibattito su un tema che sembrava sepolto nel passato. Ma questo dibattito partì dal considerare l'umanesimo come una filosofia, mentre in realtà non fu mai una posizione filosofica bensì una prospettiva e un atteggiamento di fronte alla vita e alle cose. Se nel dibattito era accettata la descrizione del XIX secolo, non è strano che pensatori come Fuocault abbiano accusato l'umanesimo di essere incluso in quella descrizione. Già prima Heidegger aveva espresso il suo anti-umanesimo considerando questo come una “metafisica” in più nella sua “Lettera sull'Umanesimo”. A volte la discussione era basata sulla posizione dell'esistenzialismo sartriano che pose la questione in termini filosofici. Osservando queste cose dalla prospettiva attuale ci sembra eccessivo accettare un'interpretazione su un fatto come il fatto stesso e, a partire da esso, attribuirgli determinate caratteristiche. Althusser, Levi-Strauss e numerosi strutturalisti hanno dichiarato nelle loro opere il proprio anti-umanesimo, nello stesso modo in cui altri hanno difeso l'umanesimo come una metafisica o, perlomeno, un'antropologia.

In realtà l'umanesimo storico occidentale non è stato in nessun caso una filosofia, nemmeno in Pico della Mirandola o in Marsilio Ficino. Il fatto che numerosi filosofi fossero inclusi nell'atteggiamento umanista non implica che questo fosse una filosofia. D'altra parte, se l'umanesimo rinascimentale si interessò dei temi della “filosofia morale” si deve intendere questa preoccupazione come uno sforzo in più per demolire la manipolazione pratica che in questo campo aveva effettuato la filosofica scolastica medievale. Da questi errori nell'interpretazione dell'umanesimo, considerato come filosofia, è facile arrivare a posizioni naturaliste come quelle che si espressero nello “Humanist Manifesto” del 1933, o a posizioni social-liberali come nello “Humanist Manifesto II” del 1974. Stando così le cose, autori come Lamont hanno definito i propri umanesimi come naturalisti e anti-idealisti affermando l'anti-soprannaturalismo, l'evoluzionismo radicale, l'inesistenza dell'anima, l'autosufficienza dell'uomo, la libertà della volontà, l'etica intramondana, il valore dell'arte e dell'umanitarismo. Credo che essi abbiano ogni diritto di caratterizzare così le loro concezioni, ma mi sembra un eccesso sostenere che l'umanesimo storico si sia mosso all'interno di queste direzioni.

D'altra parte, penso che la proliferazione di “umanesimi” negli anni recenti sia del tutto legittima purché questi si presentino come particolarità e senza la pretesa di assolutizzare l'umanesimo in generale. Infine, credo anche che attualmente l'umanesimo sia in condizioni di diventare una filosofia, una morale, uno strumento di azione e uno stile di vita. La discussione filosofica con un umanesimo storico e, per di più localizzato, è stata mal posta. Il dibattito comincia solo adesso e le obiezioni dell'anti-umanesimo dovranno giustificarsi davanti a ciò che propone oggi il Nuovo Umanesimo Universalista. Dobbiamo riconoscere che tutta questa discussione è stata un po' provinciale ed è già da molto tempo che si ripete l'affermazione che l'umanesimo nasce in un punto, si discute in un punto e a volte si voglia esportare al mondo come un modello di quel punto. Concediamo che il “copyright”, il monopolio della parola “umanesimo” sia localizzato in un'area geografica. Di fatto abbiamo parlato dell'umanesimo occidentale, europeo e, in qualche misura, ciceroniano. Poiché abbiamo sostenuto che l'umanesimo non è mai stato una filosofia ma una prospettiva e un atteggiamento di fronte alla vita, non potremmo estendere la nostra ricerca ad altre regioni e riconoscere che quell'atteggiamento si è manifestato in modo analogo?

Al contrario, fissando l'umanesimo storico come una filosofia e, per di più, come una filosofia specifica dell'occidente, non solo sbagliamo, ma mettiamo una barriera insormontabile al dialogo con gli atteggiamenti umanisti di tutte le culture della terra. Se mi permetto di insistere su questo punto è per le conseguenze non soltanto teoriche che le posizioni sopra citate hanno avuto e hanno, ma per le loro conseguenze pratiche immediate.

Nell'umanesimo storico esisteva la forte credenza che la conoscenza e il maneggio delle leggi naturali avrebbe portato alla liberazione dell'umanità; che tale conoscenza stava nelle diverse culture e che bisognava apprendere da ognuna di esse. Ma oggi abbiamo visto che esiste una manipolazione del sapere, ella conoscenza, della scienza e della tecnologia. Che questa conoscenza è spesso servita come strumento di dominazione. E' cambiato il mondo e si è accresciuta la nostra esperienza. Alcuni hanno creduto che la religiosità imbruttisse la coscienza e per imporre paternalisticamente la libertà si scagliarono contro le religioni. Oggi emergono violente reazioni religiose che non rispettano la libertà di coscienza. Alcuni hanno pensato che ogni differenza culturale fosse divergente e che si dovessero uniformare i costumi e gli stili di vita. Oggi si manifestano violente reazioni attraverso le quali le culture cercano di imporre i propri valori senza rispettare la diversità. E' cambiato il mondo ed è aumentata la nostra esperienza. E' cambiato il mondo ed è aumentata la nostra esperienza. E oggi, di fronte a questo tragico affondare della ragione, di fronte alla crescita del sintomo neo-irrazionalista che sembra invaderci, si sentono ancora gli echi di un razionalismo primitivo nel quale furono educate varie generazioni. Molti sembrano dire: “Avevamo ragione a voler distruggere le religioni, perché se ci fossimo riusciti oggi non ci sarebbero lotte religiose; avevamo ragione a cercare di liquidare la diversità perché se ci fossimo riusciti oggi non si accenderebbe il fuoco della lotta tra etnie e culture!” Ma quei razionalisti non riuscirono ad imporre il loro culto filosofico unico, né il loro stile di vita unico, né la loro cultura unica, e questo è ciò che conta. Soprattutto conta la discussione per risolvere questi seri conflitti oggi in sviluppo. Quanto altro tempo sarà necessario per comprendere che una cultura e i suoi padroni intellettuali o di comportamento non sono modelli che l'umanità in generale debba seguire? Dico questo perché forse è il momento di riflettere seriamente sul cambiamento del mondo e di noi stessi. E' facile pretendere che cambino gli altri, solo che gli altri pensano la stessa cosa. Non sarà ora di cominciare a riconoscere l'“altro”, a riconoscere la diversità del “tu”? Credo che oggi sia posto con più urgenza che mai il cambiamento del mondo e che questo cambiamento per essere positivo debba essere indissolubile nella sua relazione con il cambiamento personale. Dopo tutto la mia vita ha un senso se voglio viverla e se posso scegliere o lottare per le condizioni della mia esistenza e della vita in generale. Questo antagonismo tra il personale e il sociale non ha dato buoni risultati, bisognerà vedere se non ha più senso la relazione convergente tra i due termini. Questo antagonismo tra le culture non ci porta nella direzione corretta, si impone la revisione del solenne riconoscimento della diversità culturale e si impone lo studio della possibilità di convergenza verso una nazione umana universale.

Infine non pochi difetti sono stati attribuiti agli umanisti delle diverse epoche. E' stato detto che anche Machiavelli era un umanista che cercava di comprendere le leggi che reggono il potere; che lo stesso Galileo mostrò una specie di debolezza morale di fronte alla barbarie dell'Inquisizione; che Leonardo annoverava tra le sue invenzioni avanzate macchine da guerra che aveva disegnato per il Principe. E, proseguendo la catena, si è affermato che anche molti scrittori, pensatori e scienziati contemporanei hanno mostrato quelle debolezze. Sicuramente in tutto questo ci sono molte cose vere. Ma dobbiamo essere giusti nella nostra valutazione dei fatti: Einstein non ha avuto a che vedere con la fabbricazione della bomba atomica, il suo merito risiede nella produzione della cellula fotoelettrica grazie alla quale si è sviluppata tanta industria, inclusi il cinema e la televisione, ma il suo genio si evidenziò soprattutto nella formulazione di una grande teoria assoluta: la teoria della Relatività. E questo Einstein non ha avuto debolezze morali di fronte alla nuova Inquisizione. Né tantomeno Oppenheimer al quale si presentò il progetto Manhattan per la costruzione di uno strumento che mettesse fine al conflitto mondiale solo come arma dissuasiva che mai sarebbe stata utilizzata contro gli esseri umani. Oppenheimer fu vilmente tradito e per questo elevò la sua voce in forti richiami alla coscienza morale degli scienziati. Per questo fu destituito e per questo fu perseguitato dal Maccartismo. Molti difetti morali attribuiti a persone dall'atteggiamento umanista non hanno a che vedere con la loro posizione di fronte alla società o alla scienza ma con la loro stoffa di esseri umani di fronte al dolore e alla sofferenza. Se parliamo di coerenza e di forza morale, la figura di Giordano Bruno di fronte al martirio appare come il paradigma dell'umanista classico e, contemporaneamente, tanto Einstein quanto Oppenheimer possono essere considerati giustamente umanisti tutti d'un pezzo. E perché, al di là del campo della scienza, non dovremmo considerare come genuini umanisti Tolstoj, Gandhi e Luther King? Non è Schweitzer un umanista? Sono sicuro che milioni di persone in tutto il mondo sostengono un atteggiamento umanista di fronte alla vita, ma cito alcune personalità perché costituiscono modelli di posizione umanista riconosciuti da tutti. So che a questi individualità possono essere obiettati comportamenti, a volte procedimenti, senso dell'opportunità o tatto ma non possiamo negare il loro impegno verso gli altri esseri umani. D'altra parte non siamo qui per pontificare su chi è o non è un umanista, ma per discutere, con le limitazioni del caso, a proposito dell'umanesimo.

Ma se qualcuno ci chiedesse di definire l'atteggiamento umanista nel momento attuale gli risponderemmo in poche parole che “umanista è chiunque lotta contro la discriminazione e la violenza, proponendo soluzioni affinché si manifesti la libertà di scelta dell'essere umano”. Nient'altro. Molte grazie.

cmsu/pubblicazioni/annuario94-5.txt · Ultima modifica: 2010/06/05 20:26 (modifica esterna)