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Ha senso parlare ancora di progresso?

Vito Correddu

Festival “FuturEtica” - Città dell’Altra Economia – Roma
29 maggio 20111

Al termine di uno studio2 sull'accelerazione dell'espansione dell'universo e sull'energia oscura, i professori José Senovilla, Marc Marte e Vera Raül dell'Università dei Paesi Baschi di Bilbao e dell'Università di Salamanca, hanno ipotizzato che il tempo stia rallentando fino a che, in un lontano futuro dove già la Terra non esisterà più, “tutto sarà congelato, come il fermo immagine di un istante, per sempre.” 3

Questa nuova ipotesi, tutta da approfondire, prospetta un futuro bloccato, asfittico e una coscienza umana come un semplice epifenomeno, e ci spinge ad interrogarci sull'idea di progresso e di evoluzione. Nella storia occidentale, l'idea di progresso ha avuto diverse vicissitudini. C'è stato un momento in cui il progresso era usato per indicare la caduta dell'essere umano da uno stato di perfezione ad uno stato di abiezione e miseria, da un'età dell'oro a un'età del ferro. C'è stato anche il momento in cui per progresso s'intendeva proprio il ritorno a quell'età dell'oro, perduta nella notte dei tempi. Nel Medioevo s'immaginava che il progresso avrebbe portato al raggiungimento dell'età dello Spirito Santo in cui avrebbero finalmente prevalso la pace e l'amore.4 Con Giordano Bruno, invece, si accosta il progresso all'idea di verità data dall'esperienza.5 Nell'Illuminismo l'idea di progresso è concepita come avanzamento della ragione contro l'irrazionalità, aprendo così le porte alle teorie darwiniane che influenzeranno in maniera determinante il materialismo storico di Marx e Engels.

Oggi sembra che la questione del progresso abbia assunto ormai la dimensione del mito. È raro trovare persone che si professino contro il progresso perché, immediatamente, verrebbero additate come dei retrogradi e dei primitivi, legati nostalgicamente a condizioni prossime all'età della pietra o, al massimo, a prima della rivoluzione industriale di fine Settecento. È così forte il fascino del progresso che il concetto, si potrebbe dire, ha quasi raggiunto il livello pre-logico, vale a dire la base sulla quale si poggiano e si articolano i discorsi, e che non viene quasi mai messa in discussione.

Preso atto quindi, della difficoltà a trattare questo tema, cercheremo di spingerci dentro questo abbagliante tempio.

Per avanzare col discorso avremo bisogno di definire il concetto di progresso. Cos'è quindi il progresso?

È una domanda alla quale, credo, tutti abbiamo cercato di dare una risposta, come se non potessimo vivere senza immaginare una progressione in tutte le cose. Ci domandiamo come si evolvono le cose, ma diamo per scontato il movimento, il progresso appunto. Quando pensiamo al progresso, immediatamente siamo portati a pensare al futuro o meglio a ciò che noi crediamo o auspichiamo che il futuro debba essere. In generale il progresso è sentito come qualcosa di positivo che modifica sostanzialmente e, a volte, rivoluziona lo stato delle cose. Ovviamente, utilizziamo la parola progresso come sinonimo di evoluzione o di sviluppo e, quindi, parliamo del progresso di una malattia, del progredire di un’epidemia, del progresso tecnologico o sociale.

In generale, quando pensiamo al progresso pensiamo sempre ai fatti, agli avvenimenti, ai fenomeni umani attraverso i quali il progresso si manifesta. È come se il progresso fosse nelle cose e queste si muovessero, si trasformassero, mutassero grazie ad una forza intrinseca.

S'immagina il progresso come un elemento connaturato nelle cose, un movimento nel futuro che non ha nulla a che vedere con il mondo interno di chi l'osserva. Il progresso è “visto da fuori”, come se non avesse nulla a che vedere con le nostre credenze e i nostri valori e, quindi, con i nostri pregiudizi. Anche quando pensiamo al nostro progredire come singoli individui, arriviamo ad osservarlo come qualcosa che, malgrado sperimentato con una certa affettività, rimane ad una certa “distanza”. E’, quindi, proprio quella “distanza” che svela quel modo così estraniante d'immaginare il futuro in maniera lineare, come una progressiva successione di istanti infiniti che tanto ci condiziona nel momento in cui pensiamo al progresso in quanto tale. Ma non è forse mantenendo questa “distanza” che eludiamo di soffermarci sul modo in cui generiamo e osserviamo il movimento nelle cose? In realtà, dietro il concetto di progresso c'è un'idea di direzione, del senso, della storia e, quindi, dell'essere umano.

Per comprendere il progresso dovremo dapprima e molto brevemente definire cos'è l'essere umano. Silo, fondatore della corrente d'opinione, meglio conosciuta come Umanesimo Universalista, dava la seguente definizione di essere umano: “L’essere umano deve essere inteso come un essere storico che trasforma il mondo e la sua stessa natura attraverso l’attività sociale.” Silo ci consegna, meglio di altri pensatori del passato, la temporalità dell'essere umano. Nella sua definizione si colgono alcuni aspetti costitutivi dell'essere umano. Da un lato il fatto di essere sostanzialmente una memoria storica, un orizzonte temporale e, dall'altro, il fatto di essere-nel-mondo, di costituirsi nel mondo fino a trasformare la sua stessa natura. In questo essere-nel-mondo si spiega il suo progetto e la sua finalità in cui il presente diventa un incrocio di ritenzioni e protensioni temporali che si rappresentano come attualizzazioni di tempi diversi. In parole più semplici, se nell’essere umano c'è qualcosa di “naturale”, ebbene questo “naturale” è il cambiamento, la storia, la trasformazione.

Da questo punto di vista il tempo sembra essere un elemento costitutivo dell'essere umano, un fattore senza il quale la realtà non può essere afferrata nella sua vera essenza. Questo ci permette di affermare che il motore dell'azione umana risiede nella sua situazione di finitezza e di carenza tempore-spaziale che si traduce come dolore e sofferenza. È questa condizione di dolore e sofferenza, quindi, a spingere l'essere umano a muoversi all'interno di una cornice temporale in cui prevale il futuro.

In breve e con parole un po' crude, si può dire che senza la prospettiva futura della morte non ci sarebbe azione umana.

Ma questa prevalenza del futuro produce strani fenomeni psicologici! Ciò che crediamo possa accadere nel futuro condiziona fortemente il presente e ciò che ricordiamo del passato. Uno sguardo positivo sul futuro, per esempio, può arrivare a ripensare i fallimenti vissuti, al punto da considerarli come passi necessari nel percorso che conduce al presente e quindi al futuro. Viceversa, uno sguardo negativo sul futuro ci potrebbe portare a pensare i fallimenti quali impagabili colpe.

Partendo da queste considerazioni un po' sintetiche, che meriterebbero un approfondimento più adeguato, ritorniamo al concetto di progresso e ci rendiamo conto che questo movimento è originato dalla prerogativa tutta umana di strutturare il tempo. L'essere umano, quindi, non è un epifenomeno all'interno di un processo storico, ovvero un fenomeno secondario come può essere il colore dell'iride nell'atto del guardare. Egli, invece, è il processo stesso entro il quale si strutturano le cose.

Queste riflessioni ovviamente divergono profondamente da certe correnti di pensiero che definiscono il progresso come una successione meccanica di fenomeni evolutivi. Purtroppo questa è la visione dominante circa l'idea di progresso. Ogni torto che si fa nei confronti della natura e dell'essere umano viene oggi giustificato subdolamente con l'idea del progresso. Si dice, per esempio, che certe scelte tecnologiche o certe riforme strutturali sul piano economico e sociale siano la logica conseguenza dell'ineluttabile progresso a cui tutti dobbiamo ubbidire. Ora persino le guerre si giustificano in questo modo. Il progresso non può essere fermato dai quei quattro primitivi e rozzi talebani in Afghanistan!

Chiaro che per secoli ci hanno detto che il progresso sta nelle cose stesse. Il positivismo ha imposto la sua visione al punto che, anche quando parliamo di progresso sociale, lo si è voluto pensare come il risultato di una dialettica tra forze dall'incomprensibile natura, sia essa la volontà di potenza, una certa classe sociale o il tanto sbandierato mercato.

Certo, oggi cominciamo a renderci conto che ciò che loro chiamano progresso ha prodotto una quantità enorme di disastri e ora si tenta di correre ai ripari. Si parla, per esempio, di sviluppo o progresso sostenibile, di ecosistema sostenibile, di economia sostenibile, di società sostenibile, di istituzioni sostenibili. Questa idea della sostenibilità, però, non mettendo in discussione il concetto di progresso come successione di eventi meccanici, si presenta piena di contraddizioni e, in alcuni casi, nasconde una certa malafede. Serge Latouche, massimo esponente del movimento della Decrescita, definisce lo sviluppo sostenibile come un pleonasmo e, al tempo stesso, come un ossimoro. Per Latouche lo sviluppo sostenibile è un pleonasmo nella definizione, perché ogni sviluppo è in sé una crescita autosostenuta, poi è anche un ossimoro nel contenuto, perché nessuno sviluppo è sostenibile e durevole.

Purtroppo anche per Latouche, pur apportando una giusta critica, lo sviluppo e, quindi, il progresso restano ancora “visti da fuori”. Si rimane nell'idea di processo indipendente dall'osservatore a cui possiamo solo scegliere di includerci o sottrarci.

Detto questo, prendiamo comunque atto di come questi due movimenti di opinione, quello della Sostenibilità e della Decrescita, entrambi nati all'interno di un più vasto movimento ecologista, abbiano contribuito enormemente alla critica di un sistema economico oggi imperante.

Dopo questo lungo preambolo cerchiamo di tornare ora alla domanda di questo intervento: ha senso ancora parlare di progresso?

Se quanto detto fin qui è vero, ovvero che il progresso è considerato come un mito che spesso serve a giustificare le peggiori ingiustizie nei confronti della natura e dell'essere umano; se è vero che il concetto di progresso come successione di eventi lineari ci allontana dalla dimensione temporale peculiare nell'essere umano; se è vero che l'aggettivo sostenibile non mette affatto in discussione questa visione meccanicista del progresso; se è vero che il motore dell'azione umana è quello di liberarsi dal dolore fisico e dalla sofferenza mentale e, quindi, dall'immagine di finitezza legata alla morte, allora il progresso non può essere inteso che come avanzamento dal campo del determinismo verso il campo della libertà. Una libertà intesa in processo, come un divenire e non come condizione da acquisire. In questo senso sarebbe meglio parlare di liberazione, di progresso come liberazione. Ma non è forse questo il Destino dell'essere umano?

Certamente sì! Questo è il Destino, il progresso, appunto, in cui la coscienza si amplia e si libera dalle catene del determinismo e del desiderio di permanenza.

Questa assunzione di un Destino umano è ciò che ci permette di affermare un'etica della conoscenza. Un'etica caratterizzata dall'essere umano come valore centrale e che finalmente ci consegni un futuro degno di essere vissuto e, inoltre, una conoscenza che riveda i suoi presupposti logici e i suoi concetti originari affinché si possa stare, come affermava Heidegger, “nel tralucere dell'Essere”.

eventi/20110527-futuretica/cosa_e_progresso.txt · Ultima modifica: 2013/02/03 18:10 da fulvio