logo
CSS Drop Down Menu by PureCSSMenu.com

Riflessioni su un mondo senza vendetta

Scarica Pdf

Come sarebbe il mondo senza la vendetta e la punizione per l'offesa ricevuta?

Vorrei cominciare chiarendo che il mio contributo parte dall’idea che la vendetta è lungi dall’essere un istinto innato di conservazione o una risposta “naturale” all’offesa, così come vanno proponendo alcune teorie psicologico-evoluzioniste (Cosmides, 1992) o altre nel mondo dell’etologia e della primatologia (Waal-Luttrell, 1988). Rappresenta invece un costrutto culturale profondamente radicato nella storia umana, che si configura come un dispositivo psicologico e sociale legato a dinamiche di potere, identità e controllo.

Immaginare un mondo senza la vendetta non è un compito semplice. In primo luogo perché siamo abituati a pensare alla vendetta unicamente come espressione di una giustizia privata inammissibile in una società regolata da leggi formalmente istituite da un’autorità sovrana. È proprio il carattere privato della vendetta che la rende inammissibile, non però la sua struttura interna che resta sostanzialmente invariata nella totalità dei sistemi giuridici oggi in vigore nel mondo. Se la vendetta privata è considerata inaccettabile, la giustizia retributiva ne conserva la stessa logica: infliggere sofferenza per riparare un danno. Aristotele sosteneva che la giustizia dovesse essere “ragione libera dalla passione”, ma la punizione non è forse una forma razionalizzata di vendetta?

In questo senso, immaginare il mondo senza vendetta non significherebbe unicamente che si sia estirpata del tutto la vendetta privata e che finalmente ogni conflitto venga ricomposto davanti al tribunale della legge, ma significherebbe anche che la legge non risponda più alla credenza per la quale impartendo una dose di sofferenza e dolore all’autore del danno si compensi la vittima del torto subito.

L’utopia di un mondo senza vendetta così concepita non sarebbe al momento condivisa da chiunque. Per molti questa eventualità aprirebbe uno scenario addirittura distopico nel quale paradossalmente regnerebbe l’arbitrio, l’ingiustizia e la violenza. Questo ovviamente non ci stupisce. Quando Thomas More scrisse il suo racconto fantastico dell’isola di Utopia, immaginava una società ideale nel quale le contraddizioni del suo tempo sarebbero state risolte. Immaginava una società felice, in cui vigeva la tolleranza religiosa, senza la proprietà privata e senza la pena di morte. Il suo racconto suscitò ovviamente reazioni contrastanti. C’è chi vedeva nella critica di More alla società del suo tempo una minaccia verso le gerarchie e un invito al disordine sociale e chi, invece, lo considerava un progetto di cambiamento verso una società migliore.

Tuttavia alcune delle suggestioni proposte nel racconto Utopia trovarono nel corso dei secoli piena applicazione, in particolare nel campo della giustizia. Per esempio la proposta dei lavori forzati al posto della pena di morte (in verità si tratta di una vecchia idea romana di stampo schiavistico) fece la fortuna delle varie industrie manifatturiere europee proprio impiegando i detenuti come manodopera non salariata. Questa pratica, che incoraggiò alcuni dei peggiori crimini dei regimi totalitari nel XX sec., è ancora oggi utilizzata, per esempio, nelle carceri statunitensi e russe, nonché nei gulag cinesi.

Parallelamente però abbiamo un notevole cambio di sensibilità rispetto al passato. Per esempio la Convenzione Internazionale dei Diritti Civili e Politici del 1976, ratificata da 174 paesi, all’articolo 8 comma 3.a), vieta espressamente e senza eccezioni la misura dei lavori forzati. In altre parole, ciò che nel XVI sec. era un’idea innovatrice e appunto utopica oggi è invece considerata come una pratica disumana da estirpare. È la stessa sensibilità che ha permesso, per esempio, l’abolizione della pena di morte nella maggioranza degli Stati, eliminato il carcere a vita in alcuni ordinamenti giuridici, espulso le punizioni corporali dai modelli educativi nella scuola e che oggi reclama un’idea di giustizia diversa dall’agire vendicatorio.

Certamente ci sono oggi nel mondo sistemi giuridici che hanno mitigato notevolmente le pene rispetto a quelle immaginate nel XVI sec. da Thomas More. Sebbene il carcere resti il principale strumento penale, si osservano notevoli cambiamenti nella sua amministrazione. In alcune costituzioni e legislazioni si parla di diritti dei detenuti e della loro riabilitazione mentre in altre si promuove un sistema carcerario meno disumano. Si cominciano ad introdurre seppur timidamente forme di giustizia penale diverse da quella retributiva, in direzione di una forma riparativa o rigenerativa, in cui lo scopo non è quello di punire ma di creare le condizioni personali e sociali nelle quali, sia l’autore del reato che la vittima, possano maturare una sincera riconciliazione che permetta ad entrambi di reintegrarsi a pieno titolo in seno alla società.

Siamo di fronte a notevoli cambiamenti ma non ancora a rotture del paradigma della vendetta. Tanto è vero che queste forme innovative vengono proposte come complementari, e le pene invece come alternative a quelle previste dalla giustizia retributiva.

Questa difficoltà al cambiamento è dovuta alla credenza per la quale la vendetta, sia essa pubblica o privata, svolga una funzione di deterrenza. In altre parole si crede al meccanismo della paura come strumento per limitare i reati. La minaccia delle conseguenze di un’azione delittuosa avrebbe senso nella misura in cui fosse radicata nella mente di chi la stesse per commettere, la certezza che le conseguenze negative siano maggiori dei benefici. Si pretenderebbe quindi che di fronte alle conseguenze che ne derivano, il potenziale autore del crimine utilizzi un uguale approccio e misura dei rischi e dei benefici. Ma cosa accade, se quell’uguaglianza di approccio e misura dei rischi e benefici, non si trovasse più? Ma non è proprio quello che accade ogni qualvolta qualcuno commette un crimine? Non è forse vero che un crimine si commette nel momento in cui, per negligenza o ignoranza o infermità mentale, non si ha conoscenza delle conseguenze? Oppure, sebbene queste si conoscano, si sceglie deliberatamente di compierlo ritenendo che gli effetti positivi siano comunque maggiori di quelli negativi, anche quando questi comportino la pena di morte o il carcere a vita?

In realtà, la vendetta non è mai stata un deterrente efficace, o perlomeno lo è solo a certe condizioni e circostanze, cioè quando diviene strumento di costruzione, crescita e consolidamento del potere. La ritorsione agita o minacciata, sia in forma privata o pubblica, non ha comunque evitato il conflitto, piuttosto ha alimentato il cerchio della violenza in seno alla società.

Inoltre una società che fondasse la sua convivenza sul calcolo e la paura, mancherebbe dei presupposti minimi per vivere in pace. Eppure, crediamo che la minaccia della punizione ci protegga da chi voglia farci del male. Crediamo che se non ci vendicassimo, se la legge non punisse l’autore del danno procuratoci, questo o altri si sentirebbero autorizzati a compierlo ancora; come se, rinunciando alla vendetta, si rinunciasse alla difesa e alla prevenzione della violenza.

Si crede quindi che inasprendo le pene, certi reati debbano necessariamente diminuire. Senza addentrarci nella complessità degli studi statistici sul tema, possiamo affermare, con una certa tranquillità, che non esiste un nesso di causa-effetto tra la minaccia della pena e il numero di reati commessi. Si può comunque fare qualche esempio. In Italia, l’introduzione del reato di omicidio stradale con conseguente inasprimento della pena non ha fatto diminuire il numero di morti sulle strade. Un altro esempio è quello relativo alla pena di morte negli Stati Uniti: alcuni dati statistici (pubblicati nel 2000 dal New York Times) hanno evidenziato che il tasso di omicidi, in dieci dei dodici stati dove la pena di morte non era applicata, era inferiore alla media nazionale; il tasso di omicidi, in metà degli Stati dove era applicata, era superiore alla media nazionale.

Ma allora perché la vendetta? Perché la pena?

Possiamo fare un tentativo di immaginare un mondo senza l’agire vendicatorio proprio cercando di comprendere il perché dello stesso. Per comprendere le ragioni della vendetta dobbiamo però comprendere che cos’è l’agire vendicatorio e a quale bisogno corrisponde la pratica per la quale si deve far patire all’altro la sofferenza patita per il danno subito.

La vendetta non è una risposta dettata da una compulsione meccanica di autoconservazione, quella che per intenderci sorge spontanea per allontanare un dolore improvviso proveniente dall’esterno del nostro corpo. In quel caso la reazione sarebbe indifferenziata, non ha lo scopo di far soffrire o di punire ma più semplicemente punta a sottrarsi a una forza perturbatrice.

La vendetta non è solo un dispositivo punitivo, anzi questo è solo la sua componente più esteriore. La vendetta è in primo luogo un dispositivo semantico, è portatore di significati, è costruttore di identità, è sguardo sul senso dell’esistenza, è mezzo per consolidare relazioni di appartenenza. Nella vendetta non si agisce a caldo, si necessita sempre di un momento in cui riflettere se ciò che si è subito sia un atto deliberato o meno, in altre parole si ha bisogno di identificare un colpevole. Questa riflessione su ciò che è capitato è in verità una riflessione sull’identità. Sia quando si rappresenta l’evento come un danno, sia quando si sceglierà la risposta da assumere di fronte ad esso, è sempre in gioco l’identità, sia essa individuale o di gruppo. Un evento non è mai uguale a se stesso, cambia in relazione al tipo di sguardo che si ha di se stessi e dell’altro. Possiamo osservare infatti che fin dal Codice di Hammurabi un danno veniva sanzionato in modo diverso a seconda del censo e dello status della vittima. L’omicidio di uno schiavo e quello di un uomo libero erano puniti in maniera diversa e, nello stesso modo, era diverso il trattamento se a commettere l’omicidio era uno schiavo, una donna o un uomo libero. Si è dovuto attendere la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1793 e l’abolizione della schiavitù per cominciare a considerare, nelle aule dei tribunali, ogni essere umano uguale davanti alla legge.

In questa dimensione generativa, che plasma per esempio la figura dell’eroe giustiziere, sia esso l’offeso stesso, il suo gruppo di appartenenza o lo Stato, la vendetta incarna il desiderio di dominio e il bisogno di affermare o riaffermare un’identità. Parafrasando Cartesio si potrebbe dire: “Vindico, ergo sum”. Vendico, dunque sono.

Se volessimo quindi abbozzare uno scenario senza la giustizia vendicatrice, potremmo immaginare un mondo nel quale la vendetta è stata svuotata del suo portato identitario, al punto che si sono affermate in maniera prevalente nuove pratiche di risposta al male ricevuto. Tra queste potremmo considerare:

La giustizia riparativa o rigenerativa. Il modello è basato su tre principi fondamentali: la partecipazione attiva delle parti coinvolte, il ripristino della relazione danneggiata e l'imposizione di conseguenze significative per il reo.

Il processo di giustizia riparativa coinvolge le vittime, gli autori del reato e la comunità circostante in un dialogo strutturato e collaborativo, in cui le parti cercano di trovare una soluzione che ripristini la relazione danneggiata. La vittima ha l'opportunità di esprimere il proprio punto di vista sul reato e di far sentire il proprio dolore, mentre l’autore del reato ha l'opportunità di assumersi la responsabilità del proprio comportamento e di cercare di riparare il danno causato. Le conseguenze per il responsabile dell’azione negativa possono includere il pagamento di riparazioni finanziarie, la partecipazione a programmi di riabilitazione o l'assunzione di impegni a favore della vittima o della comunità. Queste conseguenze devono essere significative e proporzionate al danno causato dal reato.

Questo modello è focalizzato sul riparare il danno, coinvolgendo vittima e autore del reato in un dialogo che punta alla riconciliazione. Nella giustizia riparativa vi è la rappresentazione di una struttura di relazioni interdipendenti, di un tessuto sociale in cui l’individuo non è isolato. Non è isolato il responsabile dell’azione negativa, non è isolata la vittima e infine non è isolato il processo giudiziario. Tutti sono inseriti in un contesto sociale al quale fanno riferimento. Scomparendo la visione dualistica, l’autore del reato non rappresenta il male da arginare, dominare o espellere ma l’espressione che qualcosa nella struttura di relazioni si è rotto e che ha bisogno di essere appunto riparato, riconciliato. Si è chiamati quindi ad un’opera di ricucitura, ma più propriamente di creazione di un nuovo tessuto sociale nel quale tutti i soggetti implicati (vittima, reo, comunità) divengono parte attiva nella costruzione.

La giustizia trasformativa. Questa, partendo dalle situazioni in cui si è vissuta la violenza, crea le condizioni sociali per ridurre il danno e per prevenirlo. Senza seguire la logica della punizione, attiva un processo che coinvolge tutti: ognuno si assume la sua parte di responsabilità. La giustizia trasformativa, prendendo in prestito le parole della scrittrice e attivista sociale Giusy Palomba, è “tutto ciò che una comunità decide di fare per ridurre la violenza o la possibilità della violenza, senza però ricorrere alla polizia o al carcere, o a rimedi che prevedono l’espulsione, l’allontanamento e la cancellazione delle persone. È un modo di mantenere insieme due tensioni: la protezione di chi ha subito la violenza e il supporto a chi l’ha agita, in modo da poter cambiare rotta, interrompere un ciclo, affinché quella violenza non si ripeta e non ne venga generata altra”. Lo scopo della giustizia trasformativa è quello di moltiplicare i luoghi di cura e prevenzione della violenza, per rinforzare le capacità di trasformazione del tessuto sociale. Questa si accompagna a quella che viene chiamata Healing Justice, Giustizia Curativa, cioè luoghi e pratiche che consentono il recupero di individui, famiglie e comunità vittime di varie forme di violenza. Come dice Chiara Acu, artista e scrittrice: «Come ci sentiremmo ad avere luoghi nel nostro vicinato dove trovare risorse per essere ascoltati quando veniamo derubati? O quando c’è un momento di violenza nel quartiere? Quando una persona della famiglia sta avendo un esaurimento? Quando un amico è in una profonda spirale di dipendenza? Quando la nostra giornata al lavoro è stata dura? O quando abbiamo bisogno di una mano a ricentrarci e ridefinire noi stessi?».

La giustizia trasformativa svolgerebbe quindi un compito che non può essere delegato unicamente a qualche agenzia governativa o rappresentativa di un potere costituito, perché anche quel potere è parte degli intrecci di responsabilità da trasformare. Essa deve generarsi all’interno della comunità in cui si manifesta la violenza nelle sue diverse forme.

I modelli rieducativi In alcune costituzioni nazionali troviamo sancita la funzione riabilitativa della pena.

Un esempio sono:

L’Italia con l’Articolo 27, comma 3 della Costituzione

“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”

e La Spagna con l’Articolo 25, comma 2 della Costituzione

“Le pene privative della libertà e le misure di sicurezza saranno orientate verso la rieducazione e il reinserimento sociale.”

Il principio che fonda queste costituzioni è che la pena deve essere utile per il condannato e citando Bortolato e Vigna nel loro libro “Vendetta Pubblica” (2023), “Non può, non deve essere mera retribuzione. Non può, non deve essere mera prevenzione sociale. Non può, non deve essere mera deterrenza”.

Questi modelli fanno riferimento a quei casi in cui è necessaria una forma di misura detentiva del reo ed hanno lo scopo di creare le opportunità e i presupposti per il reinserimento e la riabilitazione nella società, non la punizione. I modelli rieducativi si dovrebbero affiancare a quelli che vengono chiamate oggi pene alternative, cioè la semilibertà, la detenzione domiciliare e l’affidamento in prova. Questi strumenti hanno una certa utilità se permettono al detenuto di ricostruirsi in carcere e fuori dal carcere un nuovo progetto di vita. Un progetto che gli permetta di accrescere le sue competenze, di curare i suoi eventuali disturbi psico-fisici e le sue malattie, di trovare un lavoro, di riallacciare o ricostruire una vita affettiva.

Ci sono già esperienze, in giro nel mondo, in cui tutto ciò è stato messo in moto, pensiamo per esempio ad alcune carceri del Nord Europa. I risultati di tali pratiche, in termini di riduzione della recidiva, sono estremamente positivi.

Queste forme di giustizia, alternative a quelle tradizionali di giustizia retributiva, avrebbero come fondamento una nuova concezione di essere umano, che non si presenterebbe più come un individuo, ma precisamente come un condividuo (Remotti 2021), ovvero un'entità costituita da un flusso di molteplici relazioni. Cioè un essere che coincide con il fascio di relazioni che lo forma e che egli stesso ha contribuito a formare. Portatore al suo interno di molteplicità e socialità, sarebbe quindi un agglomerato di somiglianze e differenze, che concepisce la sua identità in un’ottica di interdipendenza e non in contrapposizione all’altro. All’interno di questa concezione non sarebbe più ammessa l’idea del colpevole come di colui che, proprio perché individuo e quindi monade tra monadi, è espressione autonoma e indipendente di un agire malevolo. Quello che nella giustizia retributiva era il soggetto da punire, viene ora visto come il risultato di un complesso tessuto relazionale nel quale si possono individuare responsabilità collettive su più livelli (storico, culturale, sociale, geografico e materiale). La punizione del colpevole risulterebbe quindi inconciliabile con il concetto di condividuo, proprio perché esclude dalla verità dei fatti proprio quel fascio di relazioni sociali di cui è espressione diretta.

“Io sono io e la mia circostanza, e se non la salvo, non salvo me stesso” diceva Ortega y Gasset, dove quel salvare la circostanza significa proprio prendersi cura del mondo in cui si è immersi, affrontarne le sfide e contribuire al suo miglioramento.

Cosa ci impedirebbe quindi di aderire ad un mondo senza la vendetta?

Nel corso dei secoli si è andato affermando sempre più il principio dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani. Questo ha permesso da un lato il riconoscimento di diritti civili, politici e sociali, ma dall’altro ha prodotto un senso di frustrazione laddove le aspettative di giustizia sociale non venivano soddisfatte. Questo sentimento di ingiustizia si è trasformato in ressentiment, termine di derivazione nietzschiana, che descrive un particolare atteggiamento della coscienza nei confronti della frustrazione: invece di accettare il fallimento come parte del proprio percorso, si attribuisce la colpa a un fattore esterno, generando un desiderio di vendetta che, quando non può essere realizzato immediatamente, si rafforza nel tempo.

Nietzsche individua nel ressentiment la radice della creazione di sistemi morali e religiosi, con l’idea di una giustizia divina che punisce i colpevoli e premia i probi. Parallelamente, il ressentiment è alla base di molti movimenti sociali e ideologici che mirano a costruire una giustizia secolare eliminando i presunti colpevoli delle ingiustizie. Oggi il ressentiment è una forza pervasiva nella società globale, alimentata dalla percezione di disuguaglianza, dalla velocità dei cambiamenti e dall’incapacità di adattarsi a essi. Questo porta alla nascita di ideologie reazionarie, nazionalismi, nostalgie per un passato idealizzato e teorie complottiste.

Quando il ressentiment si manifesta a livello individuale, la vendetta rimane spesso un desiderio inespresso; ma quando diventa fenomeno sociale, essa può trovare legittimazione pubblica, innescando conflitti, guerre e sistemi di punizione disumanizzanti. Il ressentiment, dunque, rappresenta una presenza ingombrante nelle società moderne, ampliata dalla globalizzazione e dall’influenza di certi modelli sociali, economici e politici.

In questo senso il ressentiment è il principale ostacolo al superamento della vendetta. Esso trova fondamento nel modo in cui trasforma il desiderio di giustizia in un circolo vizioso di frustrazione e aggressione differita. Il ressentiment, infatti, impedisce il superamento del conflitto perché fissa l’individuo in una posizione vittimistica, dalla quale non è possibile un'autentica elaborazione del torto subito.

Se mettiamo in relazione il ressentiment con il tema della giustizia e con il sistema penitenziario, si solleva un’interessante questione etico-politica: se il ressentiment alimenta vendette istituzionalizzate, come si può costruire un sistema giuridico che non sia esso stesso una forma di risentimento socialmente accettata? La risposta potrebbe risiedere nella costruzione di una cultura della riconciliazione, che superi la logica punitiva per orientarsi verso un modello riparativo e trasformativo della giustizia. Una riconciliazione che non sia né mistificazione della coscienza, né revisionismo o oblio anestetizzante della memoria. Una riconciliazione che adagi finalmente uno sguardo umanizzante sulla pelle della mostruosità.

Per concludere, l’utopia di un mondo senza vendetta non è dunque una chimera, ma un orizzonte verso cui tendere, consapevoli che ogni passo in questa direzione contribuisce a costruire una società più giusta, equa e solidale. Il cambiamento richiede tempo, ma la storia ci insegna che le idee considerate irrealizzabili in un’epoca possono divenire conquiste concrete nelle generazioni future. In questo senso, il progetto di una giustizia senza vendetta potrebbe un giorno diventare una realtà.

Vorrei a questo punto chiudere con le parole di Silo, il cui pensiero mi è stato fonte di ispirazione per questo contributo. Egli scriveva: “Neppure quanto di peggio c’è nel criminale mi è estraneo. E se lo riconosco nel paesaggio, lo riconosco anche in me. È per questo che voglio superare in me e in ogni essere umano ciò che lotta per sopprimere la vita. Voglio superare l’abisso!”

Grazie.

Bibliografia

Aristotele, Etica Nicomachea, vari editori.

Bortolato, Alessandro & Vigna, Manlio, Vendetta Pubblica, Laterza, 2023.

Cosmides, Leda & Tooby, John, Evolutionary Psychology and the Emotions, in Handbook of Emotions, The Guilford Press, 1992.

Girard, René, La violenza e il sacro, Adelphi, 1980.

Graeber, David & Sahlins, Marshall Il potere dei re, Raffaello Cortina Editore, 2019.

More, Thomas, Utopia, Einaudi, 2012.

Nietzsche, Friedrich, Genealogia della morale, Adelphi, 2019.

Ortega y Gasset, José, Meditazioni del Chisciotte, Mimesis, 2017.

Remotti, Francesco, Individuo o condividuo, RIVISTA DI PSICOANALISI, 2021, LXVII, 3, Raffaello Cortina Editore, 10.26364/RPSA20210670671 2021

Scheler, Max, Il risentimento nella costruzione morale, SE, 2012.

Silo, Opere complete, vol.1, Multimage, 2000

Waal, Frans de & Luttrell, F. B. M., Chimpanzee Politics: Power and Sex among Apes, Harper & Row, 1988.

produzioni/riflessioni_su_un_mondo_senza_vendetta.txt · Ultima modifica: 2025/05/18 13:32 da fulvio