Corpo, mente, energia – Paradigmi di una nuova medicina

Gianluca Frustagli

III Simposio Internazionale del CMSU
Parchi di Studio e Riflessione - Attigliano
3 Novembre 2012

Con questo contributo intendo abbozzare un quadro di relazioni fra gli elementi citati nel titolo, senza alcuna particolare pretesa di rigore e con l'aggiunta di qualche osservazione. Si tratta, tra l'altro, di studi e riflessioni che potrebbero portare in futuro alla scrittura di un lavoro più esteso e dettagliato ma che, al momento, è ben lungi dall'essere completato.

Il cammino delle conoscenza, nella storia dell'uomo, ha proceduto contestualmente con l'evoluzione dei sistemi di rappresentazione. Possiamo considerare tali sistemi di rappresentazione come delle forme utilizzate per sintetizzare ciò che si è prima percepito, e quindi strutturato, a partire tanto dai sensi esterni quanto dalla nostra realtà interna o intracorporea.

Questo è avvenuto fin dal momento in cui le conquiste evolutive hanno cominciato a trasmettersi da un essere umano ad un altro, da una generazione ad un'altra, più mediante la comunicazione indiretta che mediante la trasmissione genetica , ovvero dal momento in cui l'essere umano si è costituito come essere storico.

Le rappresentazioni o i sistemi di rappresentazione, in ogni aspetto dell'agire, del pensiero e dell'espressione umana di ogni epoca (sia essa culturale, artistica, religiosa, scientifica, tecnologica, ecc.) non solo derivano da operazioni di strutturazione e di organizzazione di contenuti, ma riflettono necessariamente anche l'interesse con cui ci si pone rispetto a ciò che si sperimenta e si percepisce, rispetto cioè all'esperienza umana sempre dinamica e irriducibile. Questo significa che se abbiamo la capacità di “fermare” l'esperienza ponendo attenzione a un particolare fenomeno, analizzandolo sotto vari punti di vista per pervenire alla sintesi di qualche comprensione, facciamo questo sempre guidati da un qualche particolare interesse che scegliamo fra i tanti possibili. Queste operazioni di astrazione, necessarie a cogliere aspetti dell'esperienza, ci porteranno paradossalmente anche ad allontanarci dall'esperienza stessa che, come diceva Eraclito, è sempre mutevole e mai uguale a se stessa. Come del resto siamo anche noi, sempre in movimento fra cambiamento e identità.

Le scienze naturali, e quelle fisiche in particolare (soprattutto nella forma in cui si sono sviluppate nel mondo occidentale negli ultimi secoli), dal momento in cui l'uomo, con un nuovo sguardo, ha rivolto una sempre maggiore attenzione verso il mondo esterno, offrono un eclatante esempio di sviluppo dei sistemi di rappresentazione, all'interno dei quali prolificano e si succedono modelli e teorie.

Attraverso questi modelli e teorie si stabiliscono relazioni sempre più complesse fra i fenomeni e si rende possibile la costruzione di meravigliosi strumenti (concettuali o materiali) che permettono di intervenire, con efficacia via via maggiore, sui fenomeni stessi, aprendo nuove successive possibilità.

Ma accade contemporaneamente che, come accennato sopra, lo stesso sviluppo di queste teorie e modelli ci possa, in qualche modo, progressivamente allontanare dall'esperienza. Grazie ad essi abbiamo realizzato comprensioni e la nostra immagine del mondo è cambiata, si è ampliata. Ora potremmo essere in condizione di cogliere nuovi elementi, nuove esperienze, che potrebbero però avere caratteristiche molto distanti da tutto quel sistema di premesse che, molto tempo fa, ha costituito la base degli attuali sistemi di rappresentazione e degli attuali modelli.

Certo, stiamo parlando in generale e di questioni molto grandi che vanno anche al di là dei problemi della Scienza, ma se restiamo in ambito scientifico possiamo trovare indizi molto elementari di un certo tipo di tendenza. Capita, per esempio, che un ricercatore che fa indagini di tipo sperimentale sulla struttura fisica di alcuni materiali (utilizzando quindi strumenti di misura, su alcuni campioni, in un laboratorio) si veda restituire indietro un articolo che voleva pubblicare sui risultati delle sue ricerche perché il “peer reviewer” (cioè un altro ricercatore, chiamato ad esprimere un giudizio sulla qualità dell'articolo proposto) avrebbe trovato incongruenze fra i risultati sperimentali riportati e le simulazioni al computer dello stesso fenomeno ed aveva quindi motivato che dovessero, per questo, esserci stati degli errori nella conduzione dell'esperimento. Ora, è molto probabile che il peer reviewer avesse ragione e che tali risultati non fossero sufficienti a mettere in dubbio il complesso sistema di leggi fisiche e modelli riprodotti dalla simulazione al computer. Nessuno mette neanche in dubbio la validità e l'importanza delle simulazioni numeriche, divenute uno strumento insostituibile in molti campi. Ma qui intendo evidenziare la tendenza insidiosa in base alla quale se un dato contraddice la teoria allora si rifiuta il dato, tendenza che potremmo un po' espressivamente definire “tardo-razionalista”.

Accade così che nella Fisica (ma non solo nella Fisica), si tenda a sostituire le particolari rappresentazioni dei fenomeni ai fenomeni stessi e che le rappresentazioni di campi e particelle vengano visti e presentati come elementi “fondamentali” di una realtà “esterna” ed “oggettiva” avente caratteristiche di “materialità”, mentre tutto il resto, inclusa la coscienza umana, alla fine il prodotto più avanzato e complesso dell'evoluzione, venga paradossalmente relegato al ruolo totalmente periferico di “epifenomeno”, di “sovrastruttura” tanto più fittizia quanto più ci si allontani dalla dimensione di questi enti che si immaginano a fondamento.

Qui è forse il caso di mettere in evidenza cosa intendiamo per “struttura”, “strutturazione” o “relazione strutturale”. Facciamo degli esempi semplici: possiamo affermare che il corpo umano, da un punto di vista biologico-fisiologico (fissando cioè un certo tipo di interesse) sia una struttura che ha relazioni strutturali con gli apparati, gli organi e i tessuti che lo costituiscono, ma che ha anche relazioni strutturali con l'ambiente in cui vive. Tanto le prime quanto le seconde non possono essere mai ignorate, ma possiamo riconoscere che appartengono a due livelli di strutturazione ben distinti. In via intuitiva possiamo invece affermare che un braccio non sia una struttura, anche se ha sicuramente caratteristiche strutturali.

Facciamo un altro esempio: un atomo è sicuramente una struttura, mentre è difficile considerare la nube di elettroni intorno al nucleo come una struttura a se stante (gli spettroscopisti lo sanno bene). Anche qui possiamo evidenziare relazioni fra le particelle costituenti l'atomo e il particolare ambiente esterno in cui possiamo trovare un'estrema variabilità di situazioni. Possiamo “scendere di livello” perché sappiamo che anche ognuna di queste particelle è una struttura.

Ancora un esempio: il sistema solare è un'evidente struttura, pienamente inserita, come elemento costituente, all'interno di una struttura molto più grande che è la Via Lattea. Possiamo quindi dire che intendiamo per struttura qualcosa che possiamo percepire come un'unità, con caratteristiche proprie e con relazioni che ci appaiono molto “forti” tra i suoi costituenti e relazioni con una dinamica più “lenta” con l'ambiente in cui è inserita.

Torniamo all'esempio del Sistema Solare che alla fine dell'Ottocento fu oggetto di accurate indagini circa le irregolarità nel movimento di alcuni pianeti. Queste indagini spalancarono le porte a notevoli sviluppi successivi che portarono a quella che ora è nota come “Teoria del Caos”. Henri Poincaré, in particolare, cercò di approfondire la questione della stabilità dinamica del Sistema Solare, ovvero se ci si potesse aspettare o meno che il Sistema Solare si smembrasse spontaneamente a causa dell'accumularsi di queste irregolarità nel moto. Ora, a circa un secolo di distanza, appare meno scontato giustificare quale senso fisico possa avere porre un tale problema, inquadrando il Sistema Solare come un sistema completamente isolato e non facente parte di una galassia costituita da più di 100 miliardi di stelle, con innumerevoli possibilità di interazione con altri corpi e sistemi appartenenti alla stessa, nel corso di un singolo periodo orbitale (di appena 250 milioni di anni) del Sole attorno al centro galattico.

Si possono fare innumerevoli esempi simili. In generale si manifesta, ancora oggi nella scienza, la tendenza a considerare gli oggetti di studio come posizionati “nel vuoto” e, contemporaneamente, a rendere astratto il concetto di spazio, che diventa così un'entità separata, indipendente dai contenuti, e con proprie caratteristiche. Anche nelle varie discipline delle scienze biologiche (come la genomica, la proteomica, ecc.), che negli ultimi decenni mostrano uno sviluppo tumultuoso e dove si attribuisce grande enfasi alle reti di relazioni fra i componenti dei sistemi studiati, si fatica ancora a collocare queste relazioni in una visione strutturale.

Quello che abbiamo detto sullo spazio vale, simmetricamente, anche per il tempo, che rappresenta un altro caso particolarmente paradossale. Considerato anche solo come grandezza fisica, costituisce l'esempio di ciò che oggi sappiamo misurare con maggior precisione. Oggi un orologio atomico a fontana di cesio presenta uno scarto equivalente a 1 secondo ogni 3 milioni di anni e si riesce a generare impulsi di luce della durata misurabile in attosecondi (10-18s, ovvero 1 miliardesimo di miliardesimo di secondo). Non c'è nulla al mondo che sappiamo misurare meglio del tempo. Eppure, se ci riferiamo agli ultimi sviluppi delle Fisica Teorica, sembra che la sua esistenza non sia per nulla necessaria alle equazioni che descrivono le dinamiche “fondamentali” nella teoria quantistica. Tanto innecessario da far arrivare qualcuno ad ipotizzare che, forse, “il tempo non esiste”.

In che senso può “non esistere” ciò che sappiamo misurare meglio e che, per altri aspetti, è forse l'elemento più problematico ed enigmatico che accompagna la nostra esistenza e che arriva addirittura a marcarla con un “inizio” e una “fine”? In che senso “non esisterebbe”?

Per inquadrare la questione in un altro modo possiamo fare un paragone con quello che accade con una grandezza fisica di uso quotidiano: la temperatura. Può sembrare un paragone fuori luogo ma anche nel caso della temperatura abbiamo a che fare con qualcosa che sappiamo misurare molto bene e il suo valore è di importanza fondamentale in innumerevoli processi fisici, chimici e biologici anche di esperienza quotidiana. Eppure al livello del mondo submicroscopico, degli aggregati di piccoli numeri di atomi o molecole, la temperatura è un concetto che, semplicemente, non ha senso definire. Lì la temperatura “non esiste”.

Quindi, ritornando al caso del tempo, non potrebbe allora essere che stiamo parlando di un tempo diverso da quello dell'indubitabile esperienza umana del trascorrere, non più né meno reale di tutto ciò che sperimentiamo, e neanche più o meno reale delle equazioni della fisica che noi stessi definiamo e indaghiamo? Un Tempo talmente implicito nella danza di queste grandezze quantistiche da non poter essere descritto da un'astratta variabile lineare con una sola direzione?

Vi furono, nel XX secolo, i tentativi di Henry Bergson prima e di Ilya Prigogine poi, di collocare il tempo in una posizione centrale, quasi reagendo alla tendenza in atto nella fisica. Bergson tentò di dimostrare che la Relatività di Einstein non era in contraddizione con l'esistenza di un tempo assoluto mentre Prigogine (autore di importantissimi contributi nel campo della termodinamica dei sistemi lontani dall'equilibrio e che viene considerato uno dei padri della teoria della complessità) tentò di inserire, quasi “a forza” si potrebbe dire, l'idea di un tempo unidirezionale e irreversibile nelle equazioni della meccanica quantistica. Furono entrambi tentativi segnati dal fallimento ma interessanti per almeno due aspetti. Appare in primo luogo che questi due grandi studiosi non mettessero in dubbio l'immagine della linearità del tempo ed il fatto che voler riconsiderare l'importanza della sua concezione dovesse per forza equivalere a metterlo al centro delle equazioni, considerate fondamentali, della Fisica. L'altro fatto importante, e assai curioso da osservare, è che si scatenò contro questi due protagonisti una tale opposizione polemica che sembrava andare ben oltre il merito delle loro teorie. Se, come sostiene Silo, “l'uomo è essenzialmente tempo e libertà” non è forse lecito sospettare che la contesa sottostante fosse in realtà un'altra e che tale contesa riguardasse più la concezione dell'essere umano e la sua “posizione” nel mondo, senza che i contendenti se ne avvedessero?

Ora possiamo avanzare l'ipotesi che, come abbiamo visto per le strutture in senso spaziale, anche la concezione del tempo possa evolvere in senso strutturale per uscire dalla dicotomia fra l'antico tempo ciclico (ancora presente a livello di culture marginalizzate o in componenti subculturali), che nega il divenire storico e l'evoluzione e, dall'altra, l'insostenibile astrattezza del tempo lineare che pone severi limiti all'approfondimento dell'esperienza umana.

Heidegger, in “Tempo ed Essere” diceva che “il tempo autentico è quadridimensionale” facendo riferimento al fatto che l'esperienza della coscienza umana costituisca il passato, il presente e il futuro come tre vere e proprie dimensionalità e che il continuo articolarsi e il passare dall'una all'altra di queste tre dimensioni non si possa realizzare altro che in un ambito quadridimensionale, lasciando intuire che sia possibile riconoscere ciò solo conducendo un lavoro di attenta e profonda meditazione o grazie ad esperienze di particolare ispirazione.

Una strutturazione del tempo per così dire “a spirale” tridimensionale e a più livelli (come nella geometria frattale - come alcuni lo rappresentano) consentirebbe di combinare e dare nuovo e maggiore senso alle due precedenti concezioni che si sono avvicendate nel corso della storia (il tempo “circolare” e il tempo “lineare” cui abbiamo accennato) concretizzando, anche nel vissuto, quello che Einstein aveva immaginato in un ambito molto più specifico: la curvatura dello spazio-tempo. Parlare di tempo allora significherebbe non più parlare solo di un astratto tempo cronologico, ma parlare dell'evoluzione dei processi, con le loro caratteristiche e relazioni fra momenti precedenti e successivi e fra cicli evolutivi. Un nuovo modo di strutturare il trascorrere (all'inizio sicuramente molto più impegnativo e complesso rispetto a ciò cui siamo abituati) grazie al quale potremmo riconoscere e sperimentare corrispondenze più ampie e insieme più profonde.