Il cambiamento

Luigi Gaglio

Parco di Studi e Riflessione - Attigliano 4 novembre 2012

1 - L'argomento

La civiltà umana si sta dirigendo verso un profondo cambiamento e l'argomento specifico che mi accingo ad affrontare è di analizzare la possibilità reale che questo possa avvenire in modo evolutivo. L’argomento è talmente complesso che spero solo di poter trasmettere qualche stimolo utile per gli approfondimenti necessari.

Devo precisare subito un punto fondamentale e per farlo userò le parole che Silo pronunciò all'Accademia delle Scienze di Mosca nel 1992: “In generale l’idea di ‘popolo’ o di ‘nazione’ non coincide con quella di civiltà, nella quale si comprendono piuttosto, al di là delle loro rispettive frontiere, numerosi popoli e nazioni interni al suddetto ambito comune. Tradizionalmente ci si è riferiti alle civiltà come a degli ‘spazi culturali’ radicati all’interno di certi limiti geografici, a cui è stata attribuita la capacità di influenzare altre civiltà più o meno contigue ed essere da esse influenzati.” “Oggi, se volessimo comprendere il divenire storico, dovremmo interrogarci sulle condizioni della nostra stessa vita e così facendo umanizzeremmo quello stesso processo storico sul quale staremmo riflettendo.”

Lo Stato, quindi, non è l’aspetto sostanziale che definisce una certa civiltà, così come non lo sono i limiti territoriali con cui spesso le civiltà vengono definite; esse sono poi soggette a “scansioni” ed evoluzioni che legano il loro destino al tempo, di cui alcuni, come Vico e Toynbee, hanno tentato di fornire indicazioni.

Il cambiamento sociale, soggetto-oggetto della civiltà globale, non potrà che essere anch'esso globale, planetario. Il nucleo centrale e vitale di quanto desidero esprimere è l'individuazione delle caratteristiche di un criterio per implementare la trasformazione della civiltà attuale, o quantomeno la ricerca di alcuni parametri qualificanti e indicatori, su cui poter lavorare con una certa speranza di successo.

La catastrofe, il collasso, ormai incipiente, della civiltà attuale è una realtà che non sfugge più a nessuno, sia perché molti, come ad esempio gli umanisti, da tempo si sono adoperati affinché i veli fossero tolti, sia perché gli effetti iniziano a bruciare sulla viva pelle di quasi tutto quel 99% della popolazione, di cui si è molto parlato ultimamente.

Nella sostanza ci troviamo alla presenza del disastro, storicamente quasi contemporaneo, dell’ideologia comunista, di quella capitalistica e, infine, di quella liberista che è una vera e propria figliastra di quest'ultima.

Ci rendiamo conto che il capitalismo, che ha coperto un arco di tempo dal secolo XII ad oggi, è un'ideologia che ha talmente influenzato tutto il mondo, da non poter terminare in silenzio. Se poi si vanno a ricercare nei secoli passati le sue origini e le radici della ricchezza e della conseguente discriminazione, fin nella storia greca e romana o in altre civiltà antecedenti, comprendiamo che la rovina non potrà essere meno fragorosa di quando avvenne la caduta dell’ideologia comunista con il crollo del muro di Berlino. Insomma è estremamente probabile che col capitalismo cadranno anche gli Dei che lo hanno sostenuto.

Si deve premettere che la diffusione spaziale e temporale del capitalismo non consente di poter analizzare gli effetti di altre teorie socio-economiche per il semplice fatto che quelle alternative, pur esistite, sono di fatto crollate in un arco di tempo brevissimo o sono rimaste solo pura teoria. In mancanza di altri sistemi con cui confrontarsi, quindi, qualcuno sostiene, come Roberto Panizza, che il capitalismo, almeno dal XII secolo ai giorni nostri, ha dato luogo ad enormi conquiste sociali e tecnologiche: “…una notevole trasparenza dei mercati, un accesso al progresso tecnico a costi contenuti, una remunerazione del denaro che si avvicina a cifre ridicole e un notevole controllo sull’uso e sul costo del lavoro.”

Dato che il capitalismo è stato imperante ovunque e sempre, la civiltà umana si dovrebbe accontentare dei risultati ottenuti progressivamente e se a fronte di popolazioni benestanti sono esistite popolazioni sottosviluppate o schiavizzate… pazienza; perché quello sviluppo era il massimo conseguibile, senza alcuna reale e concreta alternativa.

Se ciò è tristemente vero, non è assolutamente accettabile la rassegnazione che si cela dietro ad un tal ragionamento.

Il collasso di cui parliamo coincide con la trasformazione del capitalismo industriale in capitalismo finanziario e con esso inizia la fine dell'efficacia della “divisione del lavoro”, che sostanzialmente significava frazionare il processo produttivo per ottenere maggiore profitto.

Non sappiamo se il benessere delle civiltà occidentali, in particolare quello degli Stati Uniti e dell’Europa durante gli anni ‘60, si possa ripetere con la fine degli effetti del neoliberismo, sicuramente però l'incessante sviluppo tecnologico, che di per sé non è né buono né cattivo, condurrà verso un incremento della disoccupazione. Potrebbe anche accadere la trasformazione dei lavoratori-consumatori in soli consumatori, ma senza denaro per acquistare alcunché, ed è questo l'aspetto maggiormente assurdo. La classe predominante dell'1%, la plutonomia, potrà arrivare a detenere contemporaneamente sia la produzione che i consumi e di tale fatto parleremo tra poco, quando tratterò dei caratteri della rivoluzione.

Per entrare nel tema sottolineerò solo alcuni punti principali del liberismo o meglio del neoliberismo attuale. Robert Nozick, uno dei tanti filosofi del liberismo, asserisce che: “Il liberista non consente ritenere giusta, equa, qualunque redistribuzione di redditi e di ricchezza in senso egualitario. Redditi e ricchezze si giudicano non per come sono, diseguali o eguali, ma per come si formarono storicamente e la loro distribuzione sarà giusta, per quanto diseguale, se fu giusta in origine…” Nozick prosegue sostenendo: “I Governanti sono uomini come tutti gli altri, coi vizi e le debolezze degli altri, non abbiamo alcuna garanzia che le loro utopie siano migliori delle altre. Non abbiamo nemmeno la certezza che fra i governanti non si insinuino i malvagi e gli incompetenti , malgrado tutte le precauzioni per evitarli. Sicché l'interrogativo più importante per il liberista non è chi debba governare , ma come debba governare, per non danneggiarci troppo in qualunque evenienza possibile.”

Tutto ciò insieme e grazie ad altri teorici del liberismo, come Von Hayek, conduce i liberisti a definire il “Governo minimo” e quindi non si può neanche dire loro che hanno governato male, perché il governo quasi quasi non lo vogliono proprio.

Il liberista afferma che la formula del comunista “a ciascuno secondo i suoi bisogni” andrebbe perfettamente bene, se non vi fossero scarsità di beni e se i beni disponibili bastassero per soddisfare tutti i bisogni di tutti! Redditi e ricchezze si giudicano non per come sono, diseguali o eguali, ma per come si formarono storicamente: e la loro distribuzione sarà giusta, per quanto diseguale, se fu giusta in origine e giuste furono le successive variazioni, se sanate nel frattempo. La sanatoria, quindi, è sempre stata una fissazione del liberismo fin dall'origine. Ma la formazione storica del capitale ci racconta di tragedie, di sangue ed ingiustizie, cosicché risulta estremamente improbabile l'esistenza di un capitale “giusto”.

Se il disastro riguardasse solo le ideologie, in fin dei conti non ci sarebbe da strapparsi le vesti, ma a ciò si abbina la realtà della civiltà capitalistica, che è quella che rispetto alle altre è riuscita a vedere la sua implementazione reale e concreta ed a sopravvivere maggiormente a lungo. L'ideologia è stata soppiantata dal suo strumento principe e oggi il sistema finanziario e politico sta compiendo il suo più grave errore di calcolo: considerare il denaro come l'unica forza del pianeta, mentre di giorno in giorno si vanno sommando in tutto il mondo energie ribelli che non hanno eguali nella storia.

Nel “plutonomico” mondo anglosassone non ha senso parlare di consumatore medio: “Ci sono dei consumatori ricchi, poco numerosi, ma che rappresentano una parte gigantesca e sproporzionata del reddito e del consumo”. Un'attenta analisi del capitalismo e della sua deformazione, cioè il liberismo, unitamente alle critiche sulla crescita infinita del capitale e sullo sfruttamento delle risorse, conduce a domandarsi inevitabilmente come può esistere un tale sistema in presenza di una civiltà considerata evoluta.

2 - Il cambiamento

Il cambiamento di per sé non è altro che una modificazione di stato e non ha, per tale motivo, alcuna connotazione positiva o negativa. È sostanzialmente qualcosa di diverso che sostituisce la condizione precedente e non è neanche detto che la nuova sia del tutto originale, anzi, come storicamente è già accaduto, può anche riproporre condizioni già verificatesi in precedenza. Un sistema, per poter esistere, deve avere una struttura e quindi una forma. “Uno dei problemi centrali posti alla mente umana è il problema della successione delle forme. Qualunque sia la natura ultima della realtà (supposto che questa espressione abbia un senso), è innegabile che il nostro universo non è un caos; noi vi discerniamo esseri, oggetti, cose che designiamo con altrettante parole. Questi esseri o cose sono forme, strutture dotate di una certa stabilità; esse occupano una certa porzione dello spazio e durano un certo lasso di tempo.”

Così asserisce R. Thom e, supponendo che il tipo di società maggiormente aderente all'attuale sia quello della “società fluida” o meglio “semifluida”, in quanto le nostre società sono comunque stratificate in classi sociali rigide, quale sarebbe il punto di collasso? E quali caratteristiche avrebbe tale collasso?

I dati in nostro possesso sono limitati e sia Marx, dal punto di vista economico, che Child dal punto di vista dell'embriologia, forniscono soluzioni troppo esemplificate per una tale complessità.

C'è da dire però che i campi morfogenetici sociali spesso modificano in modo durevole e irreversibile il comportamento degli individui, che di contro sono disponibili a tutto pur di mantenere la forma sociale globale.

Occorre precisare che, al contrario, l’instabilità della forma sociale può portare sotto spinte eccezionali ad una destrutturazione parziale o totale del sistema sociale, tanto da condurre a nuove e inattese forme.

Il cambiamento radicale, in termini politici, viene normalmente definito come rivoluzione. La rivoluzione, secondo i filosofi dell’800, sarebbe l'azione fautrice del cambiamento, tanto che, fra gli altri, sia Marx che Engels e Tocqueville, con diversi punti di vista, ne discutono sia la genesi che lo sviluppo.

È necessario a questo punto puntualizzare alcuni aspetti fondamentali: 1 - Il cambiamento non è una rivoluzione. 2 - Una rivoluzione non implica il cambiamento radicale e globale della società. 3 - Il cambiamento della forma sociale è una “catastrofe” intesa come punto singolare e discontinuo della forma del sistema. 4 - L'insieme delle coscienze degli individui genera le coscienze del sistema, che assume come propria quella predominante, sotto la spinta della risultante dell’insieme.

La rivoluzione, come afferma Gianfranco Pasquino, è un evento estremamente violento, proprio per definizione, ossia non è concepibile senza spargimento di sangue.

Essa, di per sé, non modifica lo stato degli esseri umani, ossia la rivoluzione non implica, forzatamente, un cambiamento delle sorti umane, che avviene solo a seguito di profondi mutamenti introdotti nei sistemi politici, sociali ed economici.

La rivoluzione e la sua violenza scaturiscono dal fatto che le classi dirigenti non cedono spontaneamente il loro potere. Spesso, come nel caso della Roma antica, sono i gruppi elitari che si contrappongono e danno luogo a rivoluzioni, ma il cambiamento, se ha successo, avviene solo al livello di uomini di potere.

Quanto espresso è tanto più comprensibile se si pensa che il termine “rivoluzione” nasce con Copernico, ossia nel Rinascimento, quasi che i mutamenti politici non possano discostarsi da leggi universali ed implicite, come il lento, regolare e ciclico movimento delle stelle.

Le rivoluzioni non produssero sempre innovazioni nella storia tanto che nel 1688-89, in occasione della rivoluzione inglese, il termine viene utilizzato per indicare la restaurazione di un ordine precedente perturbato: la monarchia.

Anche la rivoluzione americana e, in parte, quella francese non furono ideate come eventi originali e nuovi. Esse intendevano ripristinare uno stato alterato delle cose: tornare ad uno stato giusto ed ordinato delle cose, stravolto dalle sopraffazioni, dal malgoverno, dall'esercizio dispotico del potere.

C'è stato chi però, come Hannah Arendt, ha tentato di sdoganare la rivoluzione dalla sua implicita violenza: “Soltanto dove il mutamento si verifica nella direzione di un nuovo inizio, dove si fa uso della violenza per costituire una forma di governo del tutto nuova, per dar vita alla formazione di un nuovo ordinamento politico, dove la liberazione dall’oppressione miri almeno all’instaurazione della libertà, possiamo parlare di rivoluzione.”

Si tratta pur sempre di giochi di parole, con cui già Marx aveva esaltato nell'uomo produttore-lavoratore, l’artefice maestoso della rivoluzione e della fusione dell'idea illuminista di libertà e felicità. Non è andata così.

Non deve sorprenderci che il pensiero sul cambiamenti sia così “primitivo”, perché nella normalità il sistema sociale è stabile nella sua forma ed i momenti di reale cambiamento sono del tutto eccezionali. Del resto il concetto di rivoluzione e di cambiamento radicale non è mai rientrato negli interessi dei grandi pensatori del passato, che notoriamente erano invidiabilmente benestanti: né in Aristotele, o in Platone o in Polibio o in Tacito c'è una cultura del cambiamento ma, al contrario, si esalta quella della stabilità.

Abbiamo accennato alla condizione odierna dell'essere umano che è sottomesso a leggi ingiuste e disumanizzanti e c'è chi oggi si domanda come mai i popoli non siano ancora insorti. La risposta non può che essere rinvenuta, da un lato, nella complessità ed ampiezza dell'attuale civiltà e, dall'altro, dall'enorme influenza e diffusione del pacifismo, specie nel continente americano e in Europa. La rassegnazione con cui gli europei e gli americani stanno affrontando la crisi, è associata piuttosto al profondo senso di discriminazione che li pervade, osservando le enormi differenze sociali esistenti tra chi detiene il potere e chi lo subisce.

Il senso di ingiustizia però non può di per sé dar luogo ad alcuna rivolta, ma solo a proteste ed indignazioni, che non bastano a produrre un reale ed efficace cambiamento, per quanto la condizione che si rinviene come costante storica dell'essere umano sia quella dello schiavismo, ossia dell'uso di esseri umani da parte di altri esseri umani.

Che dire ad esempio della tratta dei neri, della deportazione degli zingari, dei gulag, dei campi di sterminio? Tale schiavismo nel tempo si è evoluto, con diverse gradazioni, da fisico a mentale. Tornando indietro nel tempo, basti pensare all'undicesima favola di Esopo, VI sec. a.C., detta “L'etiope” in cui si narra di un uomo che aveva comprato un nero e, persuaso che il suo colore fosse dovuto alla negligenza del precedente padrone, cercò con ogni tipo di lavaggio di risolvere quell'apparente mancanza di cura della persona.

Lo schiavismo è stato un “vizietto umano” fin dai primordi delle civiltà.

Non si comprende infine, come scrive Olivier Pétré-Grenouilleau, “…come l'Atene classica abbia potuto, allo stesso tempo, ‘inventare’ la democrazia e trovare le giustificazioni dell'asservimento dei non greci.” Assurdamente in una civiltà così avanzata come la nostra la tratta degli schiavi è un episodio del passato ancora quasi del tutto oscuro, di cui si sa, per certo, che si propagò dalla rete commerciale subsahariana a quella dell'Africa nera. In Russia lo Zar Alessandro II abolì lo stato dei servi della gleba solo nel 1860.

Molte delle indagini sullo schiavismo cercano di capire quanto fosse redditizio il mercato degli esseri umani e quasi tutti giungono alla conclusione che non era un business eccezionale. Si parla del 6-7,5% di profitto, come calcolò Kenneth Morgan.

Le testimonianze del tempo mostrano che la tratta era un “capitalismo avventuroso” che solo per qualche eccezionale caso poteva effettivamente costituire un'accumulazione di capitale fuori dal normale.

Fatto sta che l'origine del capitale, inteso come ammontare ingente di disponibilità economica, inizia con la conquista del territorio, ossia della terra, e prosegue con lo schiavismo. Il capitale si forma, quindi, per accumulo successivo ed incrementale, di secolo in secolo, tramite l'esercizio della forza e ciò è storicamente un fatto che si ripete dalle origini dell'essere umano.

Nel '700 Rousseau scriveva: “Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire ‘questo è mio’ e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile.”

Il capitale sopperisce a questa carenza di beni, essendo esso un bene artificiale, producibile senza limite, accumulabile ed incrementabile, senza dover combattere come nel caso della lotta per la terra, per le risorse minerarie, per le città. Senza andare oltre su questo aspetto dell'uomo-lavoratore-schiavo, ora dobbiamo fare una considerazione: è indubbio che l'accumulazione del capitale non possa che provenire dalla violenza effettuata verso un altro essere umano o verso insiemi di esseri umani.

Ovviamente per capitalismo si intende un accumulo di denaro superiore a quanto si possa conseguire col migliore dei lavori e delle attività produttive.

In ogni caso al di là della formazione del capitale, andiamo ad analizzare l’altra sua caratteristica: la sua crescita infinita.

Tale crescita fu definita come “Accumulazione del Capitale” da Marx e particolarmente dibattuta da Rosa Luxemburg nell'omonimo libro in cui dimostrava l'impossibilità di accumulazione infinita del capitale.

La Luxemburg venne uccisa nel 1919 dai soldati del governo socialdemocratico tedesco. Fu uccisa, molto probabilmente, da quegli stessi marxisti riformisti che in fin dei conti professavano la stessa fede e che nell'Unione Sovietica stavano dando luogo alla prima dittatura del proletariato.

La Luxemburg fu una vera e propria rivoluzionaria dallo “sguardo umano” e visionario, che si avvide del pericolo della dittatura del proletariato e delle iniquità che si profilavano all’orizzonte ancor prima dell’avvento di Stalin.

3 – Un’ombra inquietante

Sarebbe sufficiente l'analisi della Luxemburg a farci dedurre: - che il capitalismo, alla ricerca di nuova e povera forza lavoro, si trasforma inevitabilmente in imperialismo, e che il colonialismo si trasforma successivamente in globalizzazione. - che quando le risorse umane sono depauperate dall'ingordigia del capitale e ridotte al minimo a causa dell’esigenza di sviluppo del sistema stesso, il desiderio di crescita infinita ulteriore non può che costringere il capitale a distruggere la civilizzazione che pur ha contribuito a creare, per poterne ancora utilizzare una forza lavoro in condizioni di indigenza o comunque necessità. - che il capitalismo non può soddisfare la sua legge fondamentale di crescita infinita se, allo stesso tempo, l'essere umano ha una crescita analoga. - che l'interruzione dello sviluppo di una civiltà dove i lavoratori hanno conquistato diritti e benessere elevato, non può essere attuato in democrazia.

In definitiva, l'ombra inquietante che s'aggira sul mondo intero, non è altro che l’ingordigia estrema di povertà di cui si nutre la crescita infinita del capitalismo, che è disposto a cancellare anche i diritti democratici che affidano il potere di voto anche al rimanente 99% della popolazione, ed interrompere lo sviluppo della società che esso stesso ha contribuito a creare. L'interruzione dello sviluppo della società purtroppo, come veniva prefigurato dalla Luxemburg, fa apparire all'orizzonte i mostri del passato, che già oggi vengono incarnati in Grecia da un partito nazifascista. Sfruttate al massimo la produttività, la capacità di consumo dei lavoratori, prosciugata ogni risorsa possibile con l'imperialismo, vediamo oggi anche i limiti per lo stesso capitalismo della globalizzazione con la sua delocalizzazione, che non è altro che la ricerca di poveri sempre più poveri, per consentire ad altri poveri di alimentare ancora il capitalista. Il sistema chiuso, nell'ambito del territorio globale, comporta l'impossibilità per il capitale di perseguire il suo unico fine che è la crescita infinita “…e così arriviamo ad un mondo nel quale tutte le industrie, tutti i commerci, tutta la politica, tutti i paesi, tutti gli individui sono schiavi della concentrazione del potere finanziario.” Così afferma Silo al Centro Culturale Estacion Mapocho di Santiago del Cile il 14 maggio 1994: “Ha inizio la fase del sistema chiuso ed in un sistema chiuso non esiste altra alternativa che la destrutturazione del sistema stesso. In questa prospettiva la destrutturazione del campo socialista appare come il semplice preludio della destrutturazione mondiale che sta avanzando a velocità vertiginosa. Questo è il momento di crisi nel quale ci troviamo. Ed in una situazione bloccata come questa, il processo di decomposizione del tessuto sociale continuerà. Le organizzazioni politiche e sociali, l’amministrazione dello Stato, tutto sarà occupato da tecnocrati al servizio di un mostruoso Parastato, che tenderà a disciplinare le popolazioni con misure sempre più coercitive parallelamente alla decomposizione del tessuto sociale. In quella notte della ragione, in quella stanchezza della civiltà, avranno campo libero i fanatismi di ogni genere, la negazione della vita, il culto del suicidio, il fondamentalismo nudo e crudo. Non ci sarà più scienza né grandi rivoluzioni del pensiero. Continue guerre civili scuoteranno questo povero pianeta nel quale non vorremmo vivere. In fondo, questa parte del racconto la si ritrova nella storia di numerose civiltà che in un certo momento credettero di poter progredire all’infinito. Per fortuna, però, quando alcune caddero, nuovi impulsi umani sorsero in altri luoghi del pianeta; ed è proprio in questo avvicendarsi delle civiltà che si sviluppa il processo di superamento del vecchio da parte del nuovo. Se quanto viene affermato nelle Lettere sulla base del modello descritto è del tutto sbagliato, non ci sarà di che preoccuparsi. Se, invece, il processo meccanico delle strutture storiche va nella direzione indicata, è tempo di chiedersi in che modo gli esseri umani potranno cambiare la direzione degli avvenimenti. Ma, d’altra parte, chi potrà determinare un cambiamento di direzione tanto formidabile se non i popoli, che sono appunto il soggetto della storia?” Ed è incredibile come ormai cento anni fa Antonio Gramsci, scrivendo sul giornale Il Grido, quasi contemporaneamente allo sconquasso delle rivoluzioni europee e del primo conflitto mondiale, rinvenisse nell'essere umano una fiammella di speranza, dicendo: “L'uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica, e non natura. Non si spiegherebbe altrimenti il perché, essendo sempre esistiti sfruttati e sfruttatori, creatori di ricchezza e consumatori egoistici di essa, non sia ancora realizzato il socialismo. Gli è che, solo a grado a grado, a strato a strato, l'umanità ha acquistato coscienza del proprio valore.” “Questo - prosegue Silo - espresso nei termini a noi più abituali, significa che l’osservatore introduce nel fenomeno studiato elementi del suo proprio paesaggio, elementi che nel fenomeno studiato non esistono e che persino lo sguardo che si lancia verso un campo di studio è già indirizzato a una determinata regione di quel campo, per cui può succedere che le questioni di cui ci si sta occupando non siano affatto rilevanti.” Dobbiamo renderci conto che nel campo politico e sociale diviene particolarmente azzardato sostenere delle tesi spacciandole come “interesse comune”, mentre in realtà “l’altro” è relegato al ruolo di comparsa. La globalizzazione in atto ci pone diversi e nuovi limiti alle difficoltà di interpretazione della civiltà e al destino che vorremmo che fosse e, anche se in alcuni angoli del mondo potrebbe esistere qualche leader illuminato che tenti di affrontare il cambiamento assumendosene la responsabilità e l'intero rischio politico, purtroppo tali casi sono e saranno estremamente limitati ed ancora tutti da verificare. A Mosca nel 1992 risuonavano queste parole di Silo: “Gli avvenimenti ci stanno dando un grosso aiuto perché ci spingono ad effettuare una revisione globale di tutto ciò in cui abbiamo creduto fino ad oggi, a guardare alla storia umana da un altro punto di vista, a costruire i nostri progetti sulla base di un’altra immagine del futuro, ad arricchire lo sguardo che rivolgiamo l’uno all’altro di una pietà e di una tolleranza nuove. Grazie a ciò, un nuovo Umanesimo si aprirà la strada in questo labirinto della Storia in cui l’essere umano, come in tante altre occasioni, ha creduto di perdersi.” A quei tempi si stava trattando del crollo del mondo comunista, ma la sostanza oggi non cambia, né era diversa nel '700 quando ancora Rousseau riteneva “che la pietà è un sentimento naturale che, temperando in ogni individuo l’attività dell’egoismo, concorre alla mutua conservazione di tutta la specie.”

Gli avvenimenti nel 1992 erano tutti facilmente riconoscibili. E così si ipotizzava un mondo nel quale tutte le industrie, tutti i commerci, tutta la politica, tutti i paesi, tutti gli individui fossero schiavi della concentrazione del potere finanziario e, purtroppo, il tempo trascorso non è servito a molto. Secondo quell’ipotesi avrebbe avuto inizio la fase del sistema chiuso ed in un sistema chiuso non sarebbe esistita altra alternativa che la destrutturazione del sistema stesso, come tecnicamente ha affermato anche Thom. In quella prospettiva la destrutturazione del campo socialista appariva come il semplice preludio della destrutturazione mondiale che stava avanzando a velocità vertiginosa.

E quello “strano profeta” che era Silo, 20 anni fa, preconizzava sia la globalizzazione sia il processo di decomposizione del tessuto sociale, sia l'avvento dei tecnocrati che avrebbero operato le peggiori misure coercitive.

Eccoci qui a ripensare alle parole di Silo a Mosca: “È tempo di chiedersi in che modo gli esseri umani potranno cambiare la direzione degli avvenimenti. Nell’ultimo stadio del processo di destrutturazione, venti nuovi cominceranno a soffiare nella base sociale. Nei quartieri periferici, nelle comunità di vicini, nei luoghi di lavoro più umili, il tessuto sociale comincerà a rigenerarsi. Si tratterà di un fenomeno apparentemente spontaneo che si svilupperà parallelamente al crescere di molteplici raggruppamenti di base formati da lavoratori resisi indipendenti dalla tutela dei vertici sindacali. Partendo dalle rivendicazioni più immediate si arriverà a prendere coscienza della situazione più generale: si comprenderà che il lavoro ha un valore umano maggiore del capitale ed al momento di decidere sulle priorità, il rischio a cui è esposto il lavoratore apparirà più importante di quello a cui è esposto il capitale. Risulterà anche chiaro che non ci sarà altro modo di invertire il processo di concentrazione che porta al collasso se non mediante una redistribuzione della ricchezza a favore delle aree arretrate. La Democrazia reale, plebiscitaria e diretta, diventerà una necessità nel momento in cui si vorrà uscire dalla situazione di agonia determinata dalla non partecipazione alla politica e dalla minaccia costante di disordini popolari. I poteri saranno riformati perché a quel punto la struttura della democrazia formale, dipendente dal capitale finanziario, avrà perso ogni credito ed ogni significato. Non si tratterà affatto di un processo di conquista degli Stati nazionali ma di un moltiplicarsi, nell’intero scenario mondiale, di fenomeni sociali del tipo descritto, che prefigureranno un cambiamento radicale nella direzione degli avvenimenti. Se prenderà questa linea di sviluppo il processo storico non terminerà meccanicamente in un collasso, come tante volte è avvenuto; saranno invece i popoli, con la loro volontà di cambiamento, con la loro volontà di prendere una nuova direzione, ad incamminarsi sulla strada che porta alla creazione della nazione umana universale. Ha inizio la fase del sistema chiuso ed in un sistema chiuso non esiste altra alternativa che la destrutturazione del sistema stesso. In questa prospettiva la destrutturazione del campo socialista appare come il semplice preludio della destrutturazione mondiale che sta avanzando a velocità vertiginosa. Questo è il momento di crisi nel quale ci troviamo. Ma lo sviluppo della crisi ammette diverse varianti.”

4 - La ricerca

Nonostante la pressione operata sulle popolazioni c’è del nuovo che avanza, quel vento di cui parlava Silo, ma nelle menti è ancora informe, forse proprio perché non si hanno tutti i connotati della crisi, che rimane particolarmente oscura e misteriosa, quantunque ci sia chiaro ed evidente quali ne siano gli effetti. In virtù del fatto che noi stessi non siamo altro che il tempo, dovremmo congelare il momento attuale e risalire alle radici del disastro, per poter discernere cosa fare. Se noi esseri umani siamo il tempo, ciò vuol dire che siamo anche il futuro.

Ormai le possibili analisi sono state sviluppate e tutta la storia è stata esaminata, sappiamo perfettamente cosa è stato e cosa è, cosa si è trasmesso di buono e di cattivo nel nostro DNA, nonostante ciò non sappiamo cosa fare per il nostro personale futuro e per il futuro del pianeta.

Se noi fossimo l'Umanità, tenteremmo di integrare il passato che ci ha prodotto tanta sofferenza, ma cosa diversa è la coscienza di un uomo da quella dell'intero pianeta o di un sistema. Esiste poi una coscienza dell'Umanità? Quella che l’intellighenzia di sinistra chiamerebbe collettiva?

Questa passione per la ricerca di una o più cause può essere evanescente, anche se utile per la conoscenza storica, ma quando ci si domanda, ad esempio, come mai il vecchio corpo ci abbandona? Allora c'è chi cerca di ripararlo o sostituirne pezzi: artifizi e protesi utili solo a prolungarne l'agonia oppure si domanda solo perché? Forse perché in realtà prima o poi tutti i sistemi muoiono o cambiano.

Difficilmente il passato ci può indicare una strada, perché se così fosse, sarebbe stata già intrapresa; noi quindi sappiamo cosa non fare, ma ancora non sappiamo cosa fare e quindi proviamo a prendere strade nuove, andiamo a tentoni e domandiamo ad altri di seguirci, spesso non sapendo neanche noi verso dove. A volte protestiamo e ci indigniamo e questo accade perché, pur essendo noi il futuro, non sappiamo riconoscerlo in noi stessi e se così è, come potrebbe farlo l'umanità intera o il sistema? Perché non riconosciamo il futuro?

Oggi, però, dal cambiamento, ci si attende qualche cosa di diverso, che non sia solo il miglioramento delle condizioni più discriminanti, bensì una rivoluzione che sancisca e implementi definitivamente i diritti di tutti gli esseri umani; non basta più, quindi, una rivoluzione per fame, per denaro, per potere o per singole ragioni sociali, ma serve qualcosa di storicamente diverso e ben più che epocale, enormemente più complesso da realizzare, che non vincere una semplice battaglia o fare una rivoluzione violenta, che in fin dei conti è la cosa più stupida e facile da realizzare.

Serve una spinta energetica adeguata e direzionale, che sia efficace anche per il solo tempo necessario all'attimo del cambiamento. È necessario che la psiche della civiltà esprima una coscienza comune, un’immagine collettiva, che non vuol dire di tutti, ma che trascini tutti, creando un vuoto energetico dove anche gli altri possano avanzare per sostenere e alimentare a loro volta la spinta iniziale.

Come quando una molla si scatena solo dopo essersi compressa, così l'essere umano dovrà concentrarsi per rinvenire le sue potenzialità e nel far ciò dovrà riunificare i suoi tempi, abbandonare false credenze e finalmente lanciarsi verso il futuro.

So che tutto ciò può apparire incredibile e solo fantasioso, ma nel 1927 Heidegger pubblicò il suo lavoro fondamentale “Essere e tempo”. Salvatore Puledda, nel libro “Interpretazioni dell’Umanesimo” ci dice: “In ‘Essere e tempo’ Heidegger svolge un’analisi della concezione comune del tempo di straordinaria profondità.” Il tempo appare allora come una retta infinita, sia nella direzione del passato che in quella del futuro, formata da tali punti-istanti. “Dunque, per Heidegger”, prosegue Puledda, “ la costruzione di questa immagine illusoria della temporalità ha il suo senso nel tentativo di eludere il problema della morte. Di fronte all’angoscia che il nulla della morte produce, l’essere umano ha due possibili vie: la prima consiste nel perdersi nel mondo, nell’abbandonarsi alla banalità del quotidiano, alla cura, ai progetti continuamente fatti e disfatti, raggiunti o frustrati; egli inventa allora l’illusione del tempo come successione infinita di ‘ora’ che allontani l’oscura consapevolezza che il suo tempo è necessariamente finito. L’essere umano in questa decisione assume consapevolmente la possibilità della morte come la sua possibilità più propria. Andando al centro dell’angoscia del nulla, egli si apre così a vivere autenticamente tutte le altre possibilità dell’esistenza. Ma d’altronde, prosegue Puledda, scoprire senza veli o infingimenti di essere-per-la morte e di essere gettato nel mondo significa per l’uomo scoprire ciò che è sempre stato. Quindi l’uomo può autenticamente essere stato solo in quanto si scopre nel suo avvenire. In questo senso il fenomeno primario della temporalità originaria e autentica è l’avvenire. Heidegger mette in guardia dal considerare la temporalità come qualcosa che avviene nel tempo comunemente inteso. L’anticipazione [della morte] rende l’Esserci autenticamente ad-veniente, sicché l’anticipazione stessa è possibile soltanto perché l’Esserci, in quanto esistente, è, in generale, già sempre pervenuto a se stesso, cioè in quanto nel suo essere è, in generale, adveniente”.

Puledda chiarisce: “Detto in termini più semplici, l’accettazione consapevole della morte mostra all’uomo il suo precorrersi, il suo proiettarsi nell’avvenire (usiamo qui parole tradizionali) solo perché l’uomo così già sempre era. Questo non significa, secondo il modo ingenuo di pensare il tempo, che il futuro venga ‘prima’ del presente nel senso di un ‘prima’ e un ‘dopo’. Presente, passato, futuro sono, come dice Heidegger, co-originari e formano un’unità strutturale. Questa riflessione sull’essenza dell’uomo è dunque fondamentale in quanto è solo sulla base della comprensione della sua essenza che l’uomo può costruire il suo futuro. Ma ridare un senso alla parola umanesimo non può essere un’operazione astratta: è necessario fare un’esperienza più originaria dell’essenza dell’uomo. Gli umanesimi tradizionali hanno fallito il loro scopo: l’uomo moderno si sente alienato, senza casa, senza patria. Questa alienazione non è da pensare nei termini di Marx, ma come lontananza dall’essere.”

L'esserci è in rapporto con il possibile, nel modo dell'anticipazione e del precorrere le sue possibilità. L'esserci è sempre in attesa della realizzazione delle sue possibilità. Ma l'essere-possibile si svela nella sua totalità e autenticità solo nel fenomeno della morte intesa come estrema possibilità per l'esserci di rivelarsi in se stesso e in quanto tale.

“L'autenticità dell'esserci è ciò che costituisce la sua possibilità d'essere estrema. […] La fine del mio esserci, la mia morte, non è qualcosa per cui ad un certo momento un decorso continuo di colpo si arresta, bensì una possibilità di cui in ogni caso l'esserci sa: è l'estrema possibilità di se stesso, che egli può cogliere e fare propria come imminente. L'esserci ha in sé la possibilità di incontrare la propria morte come l'estrema possibilità di se stesso.”

5 - Muoio dunque sono: il tempo, il “come” e la possibilità di morire

Continua Puledda: “Ma cosa c'entra tutto questo con l'afferramento del fenomeno del tempo nella sua autenticità? L'esserci ha come sua possibilità estrema la sua morte. L'esserci ‘sa’ di questa possibilità già prima di morire. Può eluderla, indietreggiare di fronte ad essa, ma la morte resta per lui una possibilità certa e tuttavia indeterminata. Si sa che si morirà certamente ma non si sa né quando né in che modo. Ma questo ‘non esserci più’ che accade e che incombe sull'esistenza umana non è un semplice fatto che avviene e che può modificarmi. Tale possibilità sigilla tutto il mio essere, lo rivela come solamente mio, perché sarà la mia morte e mai quella di un altro. L'essere mio, nella sua modalità irriducibile, nella sua ‘forma’ autentica e compiuta, nel suo ‘come’, diviene finalmente visibile. Nell'esperienza quotidiana si è l'uno con l'altro, dove nessuno è mai veramente se stesso. L'affaccendarsi, il preoccuparsi riguardo al ‘che cosa’ si ha da fare e di cui ci si deve prendere cura di volta in volta non rivela il mio essere irriducibile e ‘mio’, per cui io posso dire ‘io sono’ e non sono mai l'altro.”

Solo il morire rimette ogni contenuto della mia esistenza nella sua forma, solo esso rimette ogni “che cosa” nel suo “come”.

“Muoio dunque sono.”

Ma si domanda ancora: cosa c'entra tutto questo con il tempo?

“L'uomo nel suo esistere corre incontro alla propria morte e per tutto il suo esistere sa di questa incombenza e si mantiene in questo precorrere. Questo precorrere non è altro che il futuro unico e autentico del proprio esserci. Nel precorrere l'esserci è il suo futuro, e precisamente in modo da ritornare, in questo essere futuro, sul suo passato e sul suo presente. L'esserci compreso nella sua estrema possibilità d'essere, è il tempo stesso e non è nel tempo.” Così considerato, il rapporto che ho con il tempo non si rivela essere una semplice misurazione di questo. Fenomeno fondamentale del tempo si rivela essere il futuro, il progettarsi, l'essere “avanti a sé” dell'esserci umano.

6 - Che fare

Alla luce di tutto ciò non possiamo pensare di avere il modo di illustrare, spiegare, convincere milioni di persone e farne toccare l'essenza, che la loro lotta di liberazione finale sorgerà da una tale complessa presa di coscienza universale. “Dobbiamo però allo stesso accorgerci che lontani semi di risveglio umano sono stati gettati nel suolo dell'umanità fin dagli anni ‘70 del trascorso secolo, e che allo stesso tempo la stessa rapidità dello sviluppo negativo della civiltà morente accelera in modo impressionante il sorgere della nuova civiltà.” Così afferma Noam Chomsky. Stiamo parlando del complesso cambiamento di una civiltà, e se conoscessi con assoluta certezza un metodo unico per un cambiamento globale, l'avrei già diffuso e attuato io per primo. Ho però il sospetto che l'essere umano in questo straordinario cambiamento epocale non dispieghi ancora tutte le sue potenzialità perché è frenato da timori ed incertezze che sono come dei piombi, di diverso peso, che lo ancorano al suolo, costringendolo a gesti scomposti in un improbabile decollo.

Chi riesce o chi tenta di superare la sofferenza personale sa, però, che per farlo deve prima abbandonare molti timori, false speranze, desideri e, soprattutto, paure. E qual è l'uomo più coraggioso, qual è l'uomo-futuro se non quello che ha superato la paura della morte? Chi può frenare il futuro di un uomo che non ha paura della morte? Forse neanche la morte stessa, direi. In tutto ciò non intendo assolutamente asserire che occorra precipitarsi incontro alla morte, ma esattamente il contrario: è vero infatti che per vivere pienamente occorre avere immagini del futuro e ciò accade solo se sconfiggiamo quell’enorme terrore che ci opprime e contemporaneamente ci lega al passato e al presente. I giovani dicono: “Ci avete tolto il futuro!” Non è questo forse il segno del massimo delle difficoltà che incombono sulla civiltà umana?

Non possiamo attenderci però che, di colpo, tutte le persone si trasformino e che con il loro cambiamento conducano a quello globale. La storia di un mondo che non esiste più ci ha insegnato che le civiltà si modificano per accumulazione di eventi e di idee, per la spinta di un numero limitato di persone in una sorta di clima creato da quell'accumulazione, direi energetica.

Saranno gruppi, via via sempre maggiori, costituiti da un numero limitato di esseri umani coraggiosi che avvieranno il cambiamento, magari iniziando da una fabbrica, da un campo agricolo, da un paesino, poi da un piccolo Stato, per poi diffondersi a macchia d'olio. Potrà essere un gruppo di giovani che occuperà la piazza di una cittadina, un gruppo di operai che creeranno una cooperativa e che magari occuperà Wall Street.

Oggi sono presenti tutte le condizioni, negative, ma anche e, soprattutto, quelle positive, perché questo accada. Forse il cambiamento è già iniziato, perché, per dirla alla stregua di Rousseau: ”….è manifestamente contrario alla legge di natura, in qualsiasi modo lo si definisca, che un bambino comandi un vecchio, che un imbecille guidi un saggio e che un pugno di uomini sia pieno di cose superflue, mentre la moltitudine affamata manca del necessario.”

BIBLIOGRAFIA Noam Chomsky, Siamo il 99%, 2012 Nottetempo Bobbio, Matteucci, Pasquino, Il Dizionario di Politica, 2004 UTET Rosa Luxemburg, L’accumulazione del capitale, 2012 PGRECO Martin Heidegger, Essere e Tempo, 2011 Longanesi Olivier Pétre-Grenouilleau, La tratta degli schiavi, 2004 Il Mulino Salvatore Puledda, Interpretazioni dell’Umanesimo, 1997 Multimage René Thom, Stabilità strutturale e morfogenesi, 1980 Einaudi Silo, Opere Complete volume 1, 2000 Multimage