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Riassunto e sintesi di "Identità e gerarchia" di S.Tomelleri

In ques'area possono essere pubblicate le varie sintesi delle riunioni, i riassunti o le sintesi dei libri studiati, le impressioni sul lavoro, le riflessioni e gli apporti al tema della vendetta.

Riassunto e sintesi di "Identità e gerarchia" di S.Tomelleri

Messaggioda vito » mar mar 06, 2012 1:32 pm

Identità e gerarchia
di Stefano Tomelleri – Ed. Carocci
Riassunto, sintesi di Vito Correddu



Sintesi

Come dice lo stesso Tomelleri: “L'ipotesi di questo libro è che la ragione profonda dell'attuale sentimento di crisi endemica sia da ricercare nell'inefficacia dei dispositivi moderni di autoregolazione del risentimento.”
Per esporre questa ipotesi, Tomelleri parte spiegandoci come il risentimento, nella concezione che conosciamo, viene per la prima volta definito da Nietzsche che ne approfondisce la sua dinamica di trasmutazione dei valori morali. Alla tesi di Nietzsche, Tomelleri affianca quella di Scheler che vede nello sviluppo delle concezioni egualitarie e del paradossale aumento delle diseguaglianze le ragioni del risentimento, ma per spiegarci le dinamiche interne del risentimento Tomelleri trova in Girard e nel suo meccanismo mimetico del desiderio una valida spiegazione. Partendo quindi dalle tesi girardiane di costruzione dell'identità Tomelleri introduce un'analisi sui presupposti che fondano lo Stato che come diceva Hegel definisce l'oggettività dell'individuo e quindi la sua identità. Questa pretesa identitaria dello Stato però si scontra con la sua promessa mancata di essere il dispositivo d'eccellenza di regolazione del risentimento perché in realtà non regola la crescente competizione del desiderio posta in essere dall'egualitarismo proclamato. Nemmeno il progresso tecnologico, assunto ormai a panacea di tutti i mali, sembra arrestare e regolare il risentimento perché di fatto incapace di rispondere alle questioni fondamentali sull'esistenza.
Tomelleri conclude il suo libro presentandoci la possibilità di un collasso del sistema sociale anche se intravede le condizioni per un ripensamento del modo di convivere che parta “da un altro tempo” per affermare il forte legame di interdipendenza reciproca che esiste tra gli esseri umani. Tomelleri inoltre non esclude che tutto ciò possa nutrirsi da quella grande forza esplosiva che è il risentimento capace di trasformare i valori.


Riassunto.

La parola ressentiment da Nietzsche in poi, e in particolare da La genealogia della morale del 1887, ha acquisito il significato che siamo soliti attibuirle oggi: un desiderio di vendetta inappagato che si radica negli strati più profondi della personalità.
Il filosofo ha posto al centro delle trasformazioni istituzionali e culturali della modernità l'azione creatrice della vendetta immaginaria, assumendola come strumento teorico privilegiato per comprendere le dinamiche in corso nell'era moderna. Scrive Nietzsche: “La rivolta degli schiavi nel campo della morale comincia col fatto che il ressentiment stesso diventa creativo e genera valori; il ressentiment di quei tali a cui la vera reazione, quella dell'azione, è negata e che si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria”.
Nietzsche lega il risentimento direttamente alle dinamiche della vendetta, nello specifico alle impossibilità della sua piena realizzazione e ai dispositivi sociali che ne regolano il funzionamento.
Inoltre per Nietzsche i principi e i valori diffusi dal messaggio evangelico avrebbero operato un capovolgimento della morale aristocratica ed elitaria precristiana, nel presentarsi come rivincita di tutti coloro che non sono in grado di affermarsi con le proprie forze, ma che attraverso l'adesione del cristianesimo possono aspirare alla vittoria sul “malvagio nemico”. L'amore cristiano, che ha nobilitato gli ultimi, e il conseguente appello all'amore per il nemico sarebbero un'idealizzazione del desiderio di vendetta dei più deboli verso i più forti.
Max Scheler riprende il discorso di Nietzsche sul risentimento e pur riconoscendo il ruolo centrale del risentimento nelle trasformazioni di fine Ottocento e inizio Novecento ribalta l'origine del risentimento e lo ritrova nella contraddizione tra lo sviluppo di egualitarismi e la permanenza delle disuguaglianze sociali, e insieme all'incapacità (in assenza di mezzi individuali e collettivi) di sanare un'offesa attraverso la vendetta e la rivalsa. Un'incapacità, strettamente connessa a un particolare atteggiamento di confronto tra il sé e l'altro: la smania competitiva tipica del borghese (il perenne paragone tra sé e gli altri), che ne costituisce la dimensione soggettiva.
In seguito a Nietzsche e Scheler, René Girard riprende il concetto di ressentiment sostenendo che le comunità arcaiche cercavano attraverso i rituali e i miti di canalizzare e di contenere gli antagonismi generati dalle interazione intersoggettive ponendo al centro la figura della vittima sacrificale. I meccanismi pacificatori del processo espiatorio o meccanismi vittimari, secondo Girard, straordinariamente efficaci lungo tutta la storia della specie umana, sono stati resi progressivamente inefficaci, negli ultimi millenni di quella storia, dall'opera della rivelazione cristiana, che ha portato alla luce la loro natura per costituzione violenta e dalle successive tendenze secolarizzanti delle modernità. Una conseguenza di queste radicali trasformazioni dell'antica aspettativa umana di trovare la pacificazione dei conflitti nell'uccisione rituale di una vittima è che il risentimento ha pervaso in profondità l'animo degli esseri umani.
Girard parte dal presupposto che il desiderio nasce per imitazione del desiderio dell'altro, che è un modello, più o meno consapevole: l'oggetto del desiderio è frutto di una mediazione sociale. Il soggetto attribuisce al modello il ruolo di mediatore dei propri desideri a tal punto che ne imita lo stile di vita. Ne ambisce gli stessi oggetti perché ne desidera l'essere. Il desiderio, secondo Girard è “sempre desiderio di essere un altro”. Nulla di ciò che desideriamo è spontaneo, individuale, ma tutto è mediato dal modello.
Per Girard, mano a mano che la concorrenza tra desideri si intensifica, si riducono le differenze tra il soggetto desiderante e il mediatore. Aumenta così la convergenza tra le identità dei soggetti desideranti. Il soggetto tende a coincidere con il mediatore e viceversa, a tal punto che il desiderio dell'uno è anche il desiderio dell'altro. Anche il mediatore individua nell'altro un soggetto di mediazione e si trasforma a sua volta in un imitatore dei desideri altrui, insomma, imita il suo stesso desiderio riflesso nel comportamento dell'altro.
A partire dalle acute analisi girardiane, è possibile immaginare un'azione del risentimento dalla natura ambivalente: da un lato la richiesta di essere riconosciuti come uguali agli altri, per poter rivendicare a pieno titolo morale e giuridico l'ingiustizia subita (secondo l'espressione “perché lui sì , e io no?”) dall'altro, il bisogno di distinguersi, per enfatizzare la propria condizione di vittima.
Il principio attivo, che nell'individuo consente di elaborare l'esperienza e di formare i diversi livelli di identità del Sé, viene generalmente indicato come io.
Proprio come principio attivo, l'io, non può mai coincidere con il sé, comprensivo delle relazioni con il sistema sociale. Perciò l'io non può essere colto direttamente e non ha un luogo preciso. Una prima forma di identità è tuttavia vissuta nel riferimento a qualcosa di esterno e di immaginario: l'io si costituisce tramite l'alienazione che l'identifica a qualcosa d'altro da lui, come esperienza che si può formulare nella frase “Io sono quello” che richiama il “Je est un autre” (trad.: Io è un altro) di Arthur Rimbaud.
Nella dinamica della costituzione dell'identità, l'io non appare mai direttamente e separatamente, ma sempre come rapporto con l'altro in me, che non coincide con l'io. Tuttavia questa prospettiva considera la dinamica del sé prevalentemente di introiezione dall'esterno (altro) all'interno (io).
Nella rappresentazione mimetica della costruzione del sé, si assume l'incompiutezza costitutiva, la mancanza ineluttabile di ogni individuo, che si apre verso l'altro per intima costituzione antropologica, ancor prima che per consapevolezza morale.

Il legame tra liberazione dei desideri di autorealizzazione e nascita dello Stato moderno ha mantenuto un'efficacia considerevole fino a quando la mondializzazione dei mercati non ha trasformato in profondità i processi di costruzione delle identità sociali, i piani di realizzazione delle aspirazioni personali, il patto profondo implicito nel legame tra lo Stato, il territorio e i suoi cittadini.

La condizione culturale è invece caratterizzata da una proclamata eguaglianza dei desideri. Le azioni si concretizzano in un ambiente dalle tendenze dichiaratamente egualitarie, orientato al livellamento delle differenze, perciò è sempre più difficile assegnare un valore importante alle gerarchie poste dai contesti istituzionali. Gli altri, dal vicino di casa, al collega, allo straniero, sono sempre più percepiti come ostacoli da superare per il raggiungimento dei propri desideri. Dall'altro si pretende in maniera sempre maggiore che sia uguale a “noi”, e ogni differenza “in più” rispetto a “noi”, come pure ogni limite istituzionale o sociale al desiderio di colmare quella differenza, sono vissuti come segni di un'ingiustizia patita e di una nuova rivendicazione da avanzare.

L'accentuarsi delle disparità economiche strutturali si combina dunque con la tendenza ideologica e culturale di un'uguaglianza tra desideri, rendendo le interazioni quotidiane altamente frustranti, perché nell'incessante confronto reciproco, che alimenta le prossimità, ogni persona si sente legittimata ad avere le stesse opportunità degli altri, gli stessi desideri, le stesse ambizioni, scontrandosi con la realtà di condizioni di partenza radicalmente diseguali. La libertà individuale, che regna incontrastata sul piano ideologico insieme alle proclamate infinite possibilità di scelta, si scontra con la fattibilità concreta dell'azione. La società contemporanea è egualitaria sul piano dei valori proclamati, ma diseguale non soltanto per le grandi differenze di potere tra élite e masse, ma addirittura per una nuova crescente disuguaglianza nel possesso effettivo dei beni.
A spianare la strada al risentimento è nella modernità la collocazione dell'attività razionale dell'individuo universale al centro dello spazio pubblico e delle istituzioni. La razionalizzazione delle biografie individuali ha preso gradualmente il posto del finalismo religioso, creando uno spazio vuoto presto colmato dalla frustrazione dei desideri.
Le nuove pratiche religiose possono fare a meno del sostegno della dottrina teologica delle istituzioni religiose tradizionali. Il sacro fuoriesce dalla sua sede tradizionale per insediarsi in credenze scientiste, in religioni civili, in forme private di spiritualità e in altre tipologie di fede che segnano un crollo dell'ordine mitico di spiegazione del mondo.
La scomparsa dei dispositivi rituali risalenti all'ordine mitico e arcaico trasforma il legame fiduciario, che si fondava su un forte desiderio di appartenenza, e libera il desiderio individuale. Questa liberazione coincide con una profonda trasformazione dell'identità umana. L'uomo moderno comincia a porsi la domanda: la vita ha un senso? La costruzione dell'identità diventa così un compito che ciascuno acquisisce liberamente. Ma l'altra faccia di questo processo di liberazione è che le cause dei propri fallimenti, così come dei propri successi, ricadano necessariamente nella sfera personale e sociale esclusivamente umana. Si afferma la progressiva consapevolezza da parte degli attori sociali che l'agire collettivo sia un prodotto storico, e che le responsabilità o colpe siano pertanto da ricercare tra gli uomini.
Gran parte dell'Ottocento e gli inizi del Novecento hanno visto gli uomini e le donne trovarsi a vivere in un mondo che non era in fondo molto diverso da quello delle generazioni precedenti: un cittadino nasceva, cresceva, moriva in uno spazio relativamente piccolo, conservando immutati i tratti fondamentali della propria cultura. Naturalmente, le varie realtà comunitarie, del mondo antico e premoderno, avevano sperimentato casi di contaminazione e “meticciato” culturale, ma il legame fiduciario all'interno della comunità di appartenenza era costruito sulla separazione spaziale tra la propria comunità e le altre. Perciò una determinata comunità, città, nazione era unita al suo interno per la vicinanza territoriale dei suoi membri ed era divisa dalle altre per la lontananza che le separava le une dalle altre.
L'individuo moderno ha emancipato il proprio desiderio dai vincoli tradizionali e dalle imposizioni rituali, dall'isolamento, dall'ignoranza e dalla schiavitù. La ragione oggettiva è stata alla base delle tre principali tipologie di cittadinanza: quella civile, che attribuisce agli individui i diritti di parola, di pensiero, di proprietà, di eguaglianza davanti alla legge; la cittadinanza politica, che riconosce il diritto di partecipazione all'esercizio del potere; la cittadinanza sociale che comprende i diritti all'educazione, alla salute e alla sicurezza, e l'insieme dei diritti che contribuiscono allo standard di vita. I principi di cittadinanza hanno definito i confini dell'appartenenza alla società moderna, riconoscendo a coloro che possedevano questo status un'uguaglianza di diritti e di doveri ad essi associati, funzionali alla realizzazione dei desideri.
Il progetto politico e culturale di una nuova e originale identità sociale, incentrata sulla libertà e sull'autorealizzazione personale, è il cuore della promessa fatta dallo Stato nazione ai suoi cittadini.
Lo sviluppo dello Stato moderno si è fondato sulla convergenza in un unico centro del monopolio della violenza legittima e del sistema di tutela necessario a garantire la sicurezza dei suoi cittadini. I gruppi dirigenti hanno esercitato ciò nondimeno il loro potere per poter garantire alla nascente collettività nazionale, un benessere largamente diffuso e una cultura unitaria, in particolare attraverso programmi d'istruzione pubblica.
La strategia di costruire una lingua, una patria, un territorio, degli eroi e dei miti comuni ha favorito l'omologazione politica e nazionale. Ma questo orientamento dei gruppi dominanti non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo se non avesse trovato contemporaneamente un elemento di polarizzazione del risentimento emergente dagli antagonismi sociali interni, capace di suscitare profondi sentimenti di unità: il nemico al di là del confine.
Già Hegel, influenzando il pensiero sociale e politico successivo, in Filosofia del diritto compiva una distinzione tra “società civile” e “stato politico”. Egli afferma che la prima è il luogo della conflittualità e delle contraddizioni perché in essa sorgono interessi individuali differenti e contrastanti, cioè antitetici, e che perciò devono essere trascesi nell'unità dello Stato politico. Lo Stato ha il compito di sublimare tali divergenze, oggettivando la realtà. Scrive Hegel: “Se lo Stato viene confuso con la società civile e la distinzione di esso viene posta nella sicurezza e nella protezione della proprietà e libertà personali, allora l'interesse degli individui come tali è il fine estremo per il quali sono uniti, e ne segue parimenti che essere membro dello Stato è qualcosa che dipende dal proprio piacimento”. Ma non potendo lo Stato ergersi su un tale fondamento utilitaristico, prosegue Hegel: “Lo Stato ha un rapporto del tutto diverso con l'individuo; giacché lo Stato è spirito oggettivo, l'individuo stesso ha oggettività, verità e eticità soltanto in quanto membro del medesimo”.

Nella società tardo-moderna, gli attori sociali, spesso fragili e gravati da un eccesso di aspettative, rispondono all'azione disgregante del risentimento individualistico e competitivo con una crescente fiducia nel sistema specialistico e tecnocratico. Si diffonde la tendenza ad affidarsi a sistemi sempre più astratti e razionali di organizzazione dell'identità, ponendoli anche a fondamento dei processi educativi.
Il desiderio originario di vincere l'icompiutezza naturale rischia oggi di trasformarsi, grazie allo sviluppo di tecnologie sofisticate e potenti, in un desiderio illimitato di eternità e in corrispondenti amare frustrazioni.
Lo sviluppo tecnico-scientifico è stato un motore inarrestabile della promessa moderna di un progresso continuo e grandioso. Gli individui hanno riposto quote sempre maggiori di fiducia nei sistemi tecnocratici sperando che in questo modo di risollevarsi dalla progressiva intossicazione delle relazioni sociali concorrenziali. Essi si aspettavano che il potere mitico e virtuale della tecnologia potesse risolvere non solo i problemi materiali, ma anche quelli spirituali dell'esistenza, legati alla crisi dell'ordine sociale tradizionale.

Il motore della violenza è piuttosto un desiderio esasperato e frustrato di rassomiglianza e di convergenza verso un medesimo oggetto del desiderio, il protagonismo planetario, che le diverse “grandi narrazioni” in gioco sulla scena mondiale condividono, al di là delle differenze religiose o religioso-culturali. Le visioni della realtà che popolano il pianeta sono molteplici, ma sembra permanere in tutte la stessa ostinata ideologia del risentimento, per la quale il proprio punto di vista coincide immediatamente con la verità dei fatti, la cui affermazione sarebbe ostacolata dal permanere di un altro punto di vista, alternativo e “nemico”.

L'inquietudine generata dal diffondersi del risentimento annuncia due forme di collasso del sistema nel suo insieme, fra loro strettamente intrecciate: da una parte, la dispersione di energie individuali in gare competitive interminabili, settoriali e dall'esito sempre più conflittuale, dall'altra, l'irrigidimento delle istituzioni democratiche e dei sistemi esperti specialistici e tecnocratici, che hanno conosciuto la loro nascita nella recente storia moderna.
Il primo aspetto si manifesta nella frustrazione di chi rincorre una meta irraggiungibile, sapendo al tempo stesso che non vi si può rinunciare.
Il secondo aspetto di collasso si manifesta nella progressiva separazione delle biografie delle persone comuni, da un lato, e i sistemi costituiti dalle istituzioni democratiche e dai grandi apparati tecnologico-economici, dall'altro.
La competizione, in nome del valore moderno dell'autorealizzazione, si è talmente intensificata e ampliata su scala planetaria che nessuno “sfogo” verso un capro espiatorio posto in un altrove chiaramente certificabile può risolvere la causa del diffuso disagio prodotto dalla competizione stessa.
Ma proprio a partire dall'amarezza della delusione e dell'impotenza che vanno diffondendosi sempre più negli animi per il venir meno della promessa moderna può nascere una nuova consapevolezza. Può prendere corpo un ripensamento del modo di convivere, così profondamente radicato su principi di potenza individuale, di concorrenza defatigante, di ingegneria sociale. Principi pensati in un altro tempo, all'interno dell'ideologia del progresso che con le sue promesse prometeiche di controllo della natura e del tempo ha a lungo nascosto la verità quotidiana dell'interdipendenza reciproca.
A tutti i livelli della vita, locale e planetaria, si è sempre più testimoni dell'impossibilità di condurre un'esistenza autoreferenziale e solipsistica.
Nel contempo, dall'altra parte, il risentimento stesso è una riserva esplosiva di critica radicale all'ordine sociale e simbolico esistente, alle organizzazioni e alle istituzioni sociali che irrigidendosi nelle forme ereditate dalla modernità non sono capaci di promuovere una relazione tra individui che accolgono reciprocamente nella loro singolarità e fragilità, invece che nella loro presunta, autoreferenziale autosufficienza.
vito
 
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