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Sintesi e Riassunto di “Il capro espiatorio” di René Girard

In ques'area possono essere pubblicate le varie sintesi delle riunioni, i riassunti o le sintesi dei libri studiati, le impressioni sul lavoro, le riflessioni e gli apporti al tema della vendetta.

Sintesi e Riassunto di “Il capro espiatorio” di René Girard

Messaggioda vito » dom mar 04, 2012 11:49 pm

Sintesi e Riassunto di “Il capro espiatorio” di René Girard

Sintesi
Il testo cerca di dimostrare attraverso un'analisi approfondita di alcuni miti e dei Vangeli la tesi per la quale in certi momenti di crisi della società s'innesca una violenza collettiva che ha come bersaglio sempre un capro espiatorio che svolge da un lato la funzione di rappresentare, in base a certi stereotipi vittimari, tutta la negatività presente e dall'altro di fungere da elemento ordinatore al punto che si trasforma in nuova divinità che rimpiazza quelle del periodo precedente.
Girad sostiene che se gli esploratori e gli etnologi non hanno potuto essere testimoni di questi ipotetici fatti che risalgono alla notte dei tempi, è altresì vero che le prove indirette che dimostrano questa teoria abbondano, come l'universalità del sacrificio rituale in tutte le culture umane e i miti raccolti dai popoli più disparati. Se la teoria è vera, allora nel mito sono rintracciabili:
1.una crisi, che può essere descritta metaforicamente, ma sempre in modo da richiamare la fluidità o la contagiosità della crisi mimetica; esempi: pestilenza, diluvio, incendio, ecc..
2.la colpevolezza della vittima-dio, che è descritta come colpevole perché il mito è raccontato dal punto di vista dei persecutori, mentre essa è in realtà solo un capro espiatorio arbitrario.
3.i tratti di selezione vittimaria, che sono quei tratti arbitrari che hanno attirato l'attenzione della folla polarizzandone la violenza sulla vittima; esempi: handicap o particolari fisici (claudicanza, capelli rossi, …), eccessiva bellezza o bruttezza, ecc..
4.il potere della vittima di stabilire l'ordine sociale che permette la vita del gruppo.

Girard trova questi elementi in numerosi miti provenienti da ogni parte del mondo, a cominciare da quello di Edipo.

Secondo René Girard ci sono tre stereotipi della persecuzione:
•il primo è lo stereotipo della crisi, cioè dell'eclissi del culturale, la fine delle regole e delle “differenze” gerarchiche e funzionali che definiscono gli ordini culturali. Di fronte all'eclissi del culturale gli uomini però non si interessano alle sue cause originarie. Poiché la crisi è innanzitutto crisi del sociale, esiste una forte tendenza a spiegarla attraverso cause sociali e morali. Gli individui tendono a farsi folla indifferenziata e invece di incolpare se stessi tendono a incolpare la società nel suo insieme, portandoli al disimpegno, sia altri individui che sembrano loro particolarmente nocivi. I sospetti vengono accusati di un tipo particolare di crimini. I crimini più frequentemente invocati sono sempre quelli che trasgrediscono i tabù più rigorosi, relativamente alla cultura considerata: incesti, stupri, bestialità o crimini religiosi. Secondo Girard i persecutori finiscono per convincersi che un piccolo numero di individui, persino uno solo, possa rendersi estremamente nocivo all'intera società, malgrado la sua debolezza relativa. La folla per definizione cerca l'azione, ma non può agire sulle cause della crisi, cerca così una causa accessibile per sfogare la sua rabbia e in alcuni casi la sua violenza. L'opinione pubblica isterica, che ancora non si è fatta folla violenta, inverte il rapporto tra la situazione globale della società e la trasgressione individuale. Invece di vedere nel microcosmo individuale un riflesso o un'imitazione del livello globale, essa cerca nell'individuo la causa e l'origine di tutto ciò che la ferisce.
•Il secondo stereotipo è quello delle accuse stereotipate: non importa che le persone accusate abbiano realmente commesso il crimine, importa la credenza nei loro confronti: ovvero non è necessario stabilire la prova.
•Il terzo stereotipo invece riguarda l'appartenenza delle vittime della persecuzione a certe categorie di per sé già esposte a subirla. «Le minoranze etniche o religiose - scrive Girard - tendono a polarizzare contro di sé le maggioranze. (…) Non c'è quasi società che non sottometta le proprie minoranze, i propri gruppi mal integrati, o anche semplicemente distinti, a certe forme di discriminazione se non di persecuzione.»
Accanto ai criteri religiosi e culturali, ve ne sono di puramente fisici. La malattia, la follia, le deformità, l'infermità tendono a polarizzare i persecutori. Per esempio all'interno di una classe a scuola, ogni individuo che prova delle difficoltà di adattamento, lo straniero, il provinciale, l'orfano, il povero o semplicemente l'ultimo arrivato è più o meno a rischio di vittimizzazione e di essere considerato dagli altri un infermo. Quando l'opinione pubblica di un paese ha scelto le sue vittime in una certa categoria sociale, etnica o religiosa tende ad attribuire a questa le infermità e le deformità che rafforzano la polarizzazione. Questa tendenza sfocia poi in caricature razziste. Oltre a un'anormalità fisica vi è anche un'anormalità sociale in quanto è la media che definisce la norma. Più ci si allontana dallo statuto sociale più comune più aumentano i rischi di persecuzione. Infine Girard affronta la questione molto attuale di quando le differenze divengono motivo di discriminazione e persecuzione. “Non vi è cultura - scrive - all'interno della quale ciascuno non si senta differente dagli altri e non giudichi le differenze legittime e necessarie”. Secondo Girard l'esaltazione contemporanea della differenza non è altro che l'espressione astratta di una maniera di vedere comune di tutte le culture.
“Non è mai la loro differenza specifica che si rimprovera alle minoranze religiose, etniche o nazionali; si rimprovera loro di non differenziarsi in modo opportuno, al limite di non differenziarsi affatto”.

La persecuzione e l'odio si scatenano quando non è l'altro nomos che si vede nell'altro, ma l'anomalia, non è l'altra norma, ma l'anormalità; l'infermo si muta in deforme e lo straniero in apolide. Il non vedere l'altro come portatore di un sistema differente ma anormale non permette di poterlo distinguere come differente dal proprio sistema, ciò mette in crisi il sistema stesso perché non sa più come differenziarsi e rischia di cessare come sistema. Così le persecuzioni servono a chi le mette in atto anche solo verbalmente a riposizionarsi come gruppo minacciato dalla crisi identitaria del suo sistema che non sa più come differenziarsi dalle altre differenze.

Riassunto
Mi occuperò soltanto delle persecuzioni collettive o con risonanze collettive. Per persecuzioni con risonanze collettive intendo violenze come la caccia alle streghe, legali nelle loro forme, ma generalmente incoraggiate da un'opinione pubblica sovraeccitata.
Le persecuzioni che ci interessano si svolgono di preferenze durante periodi di crisi che comportano l'indebolimento delle istituzioni normali e favoriscono la formazione di folle, cioè di assembramenti popolari spontanei, suscettibili di sostituirsi interamente a istituzioni indebolite o di esercitare su queste una pressione decisiva.
Le circostanze che favoriscono questi fenomeni non sono sempre le stesse. A volte si tratta di cause esterne come le epidemie o ancora una estrema siccità oppure un'inondazione, che provocano carestia. A volte si tratta di cause interne, discordie politiche oppure conflitti religiosi.
L'impressione più viva è invariabilmente quella di una radicale rovina del sociale stesso, la fine delle regole e delle “differenze” che definiscono gli ordini culturali.
Il crollo delle istituzioni cancella e comprime le differenze gerarchiche e funzionali, conferendo a ogni cosa un aspetto insieme monotono e mostruoso. In una società non in crisi, l'impressione della differenza è suscitata allo stesso tempo sia dalla diversità del reale, sia da un sistema di scambi che differenzia, e quindi dissimula, gli elementi di reciprocità che esso necessariamente comporta, pena la possibilità di non costituire più un sistema di scambi, cioè una cultura.
Quando la società va verso la rovina, invece, le scadenze si ravvicinano, una reciprocità più rapida si instaura non soltanto negli scambi positivi, che non sussistono più se non nella stretta misura dell'indispensabile (nella forma del baratto, per esempio), ma anche negli scambi ostili o “negativi”, che tendono a moltiplicarsi. La reciprocità, che diventa visibile accorciandosi, per così dire, non è quella dei cattivi comportamenti, ma dei cattivi, è la reciprocità degli insulti, dei colpi, della vendetta e dei sintomi nevrotici.
Anche se oppone gli uomini tra loro, questa reciprocità cattiva rende i comportamenti uniformi ed è all'origine di una predominanza dello stesso, sempre un po' paradossale perché essenzialmente conflittuale e solipsistica. L'esperienza dell'indifferenziazione corrisponde dunque a qualcosa di reale sul piano dei rapporti, ma non per questo meno mitica. Gli uomini, ed è quello che succede ancora una volta nella nostra epoca, tendono a proiettarla sull'universo intero e ad assolutizzarla.
L'esperienza delle grandi crisi sociali non è molto intaccata dalla diversità delle cause reali. Ne risulta una grande uniformità nelle descrizioni che si basano sull'uniformità stessa. Si può parlare quindi di uno stereotipo della crisi e bisogna vedervi logicamente e cronologicamente, il primo stereotipo della persecuzione.
Poiché la crisi è innanzitutto crisi del sociale, esiste una forte tendenza a spiegarla attraverso cause sociali e soprattutto morali. Dopotutto, sono i rapporti umani che si disgregano e i soggetti di questi rapporti non potrebbero essere completamente estranei al fenomeno.
A prima vista i capi di accusa sono molto diversi, ma non è difficile individuare la loro unità. Vi sono innanzitutto i crimini di violenza che hanno per oggetto gli esseri per i quali la violenza è più criminale – sia in senso assoluto sia relativamente all'individuo che commette quei crimini: il re, il padre, il simbolo dell'autorità suprema, e a volte, nelle società bibliche e moderne, anche gli esseri più deboli e disarmati, in particolare i bambini.
Vi sono quindi i crimini sessuali, lo stupro, l'incesto, la bestialità. I crimini più frequentemente invocati sono sempre quelli che trasgrediscono i tabù più rigorosi , relativamente alla cultura considerata. Questi categorie di crimini costituiscono il secondo stereotipo.
Tutti questi crimini sembrano fondamentali. Si rivolgono contro i fondamenti stessi dell'ordine culturale, le differenze familiari e gerarchiche senza le quali non vi sarebbe ordine sociale.
I persecutori finiscono sempre per convincersi che un piccolo numero di individui, persino uno solo, possa rendersi estremamente nocivo all'intera società, malgrado la sua debolezza relativa.
Non dobbiamo preoccuparci delle cause ultime di questa credenza, per esempio dei desideri inconsci di cui ci parlano gli psicoanalisti, o della segreta volontà di opprimere di cui parlano i marxisti. Noi ci situiamo al di qua; la nostra preoccupazione è più elementare; ci interessa soltanto la meccanica dell'accusa, e l'intreccio delle rappresentazioni e delle azioni persecutorie.
La folla tende sempre verso la persecuzione perché le cause naturali di ciò che la sconvolge, di ciò che la trasforma in turba, non possono interessarla. La folla, per definizione, cerca l'azione, ma non può agire sulle cause naturali. Cerca dunque una causa accessibile che sazi la sua brama di violenza.
Nella misura in cui aumenta la qualità intellettuale, la società sostituisce con logiche “scientifiche” la causalità magica dell'accusa.
Succede che le vittime di una folla siano del tutto aleatorie; succede anche che non lo siano. Succede persino che i crimini di cui le si accusa siano sì reali, ma che, neanche in questo caso, essi siano determinanti nella scelta dei persecutori, mentre lo è, piuttosto, l'appartenenza delle vittime a certe categorie particolarmente esposte dalla persecuzione. Esistono così degli aspetti universali di selezione vittimaria, e sono questi che costituiscono il nostro terzo stereotipo.
Io non cerco di circoscrivere esattamente il campo della persecuzione; non cerco di determinare con precisione dove comincia e dove finisce l'ingiustizia. Contrariamente a quello che pensano alcuni, dare buoni o cattivi voti all'ordine sociale e culturale non mi interessa. La mia sola preoccupazione è quella di dimostrare l'esistenza di un schema transculturale della violenza collettiva, facilmente delineabile. L'esistenza di uno schema è una cosa, il fatto che quell'avvenimento determinato vi s'inserisca è un'altra cosa.

Vito Correddu
04.03.2012
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