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Riassunto Il codice della vendetta barbaricina - Pigliaru

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Riassunto Il codice della vendetta barbaricina - Pigliaru

Messaggioda vito » ven feb 17, 2012 10:26 pm

Riassunto del “Il codice della vendetta barbaricina” di Antonio Pigliaru.

Il lavoro di Pigliaru sorge da una ricerca sociologica nella cultura barbaricina. Egli raccoglie dalla tradizione orale i codici comportamentali legati alla vendetta e li struttura in un codice di 23 articoli# dal rigore e linguaggio giuridico.

Dal suo studio emerge che la vendetta è legata all'offesa. Non ci può essere vendetta senza offesa ma l'offesa non è legata all'azione in sé ma all'intenzione che muove l'azione. Da ciò consegue che una stessa azione può essere percepita come offesa solo in relazione all'intenzione che vi era dietro. L'abigeato per esempio costituisce offesa solo se mira a screditare, sminuire, marginalizzare l'offeso. Diversamente l'abigeato è percepito come una legittima pratica al quale si risponde con un altro furto di bestiame che non necessariamente ha come bersaglio il responsabile del precedente furto.
Stabilita quindi l'offesa, scatta la vendetta, ma in questo contesto la vendetta non è un diritto dell'offeso, è un dovere. Nessun “uomo forte” può sottrarsi dal dovere della vendetta. Nessuno che si senta parte della comunità, che ne condivida e ne ha condiviso le vicissitudini, i valori, il sentire, può esimersi dal dovere della vendetta. Sottrarsi a questo dovere significa porsi fuori dalla “comunità dei noi” e dai vantaggi che l'appartenervi reca con se. Quindi il sottrarsi significa l'aver acquisito o credere di aver acquisito una posizione di forza, in termini di credibilità, in termini di status sociale, in termini di diversità religiosa o giuridica.
Colui che opera la vendetta diventa quindi un organo della comunità. Opera per conto della comunità. E' quindi la comunità che vuole e agisce e sarà sempre la comunità che sottoporrà a giudizio colui che vendica in merito al modo in cui ha espresso la vendetta.
In questo senso la vendetta non può essere vista come un moto irriflesso, istintivo. La vendetta nel codice barbaricino è sempre ritardata, cioè pensata, riflessa e non meccanica. Pagliaru infatti sostiene: “La cosa importante perché, sia pure in modo rudimentale, il soggetto legittimato dalla vendetta per causa di questa attribuzione di un dovere (attribuzione attraverso la quale la comunità realizza se medesima e si pone essa medesima come soggetto di azione); e per il modo in cui quel dovere viene attribuito e per il significato che esso ha – in quei termini in cui è posto nella struttura organizzativa dell'ente sociale – finisce con l'assumere, di fatto, il ruolo di organo, rispetto alla comunità – e dalla sua legge – che appunto per tal modo e per l'azione di quel suo membro, realizza il proprio intervento nell'azione, egli acquista infatti, ad implicita conferma di questa sua nuova posizione, anche alcuni criteri discrezionali, nell'esercizio attivo di questa sua nuova condizione, che ben sottolineano, a loro volta, il rapporto di continuità intercorrente tra la volontà (generale) della comunità e la volontà sua, rapporto che così non risulta interrotto in nessun momento.”.
Secondo il Pigliaru quindi la vendetta nel codice barbaricino è fatto di interesse pubblico che si muove con una logica che reinterpreta il vecchio concetto della vendetta come ius talionis. Infatti per il Pigliaru il codice barbaricino è un avanzamento rispetto all'azione irriflessa della legge del taglione nella quale non si prende in considerazione la responsabilità personale, l'intenzione che agisce e compie l'offesa. Nella legge del taglione c'è solo il fatto e a quel fatto si risponde con un altro fatto proporzionato all'entità del danno. Dal codice della vendetta barbaricina si definisce invece il dovere di sentirsi offesi ma questa offesa deve essere sempre circostanziata cioè deve ledere l'onore dell'offeso. Non basta il danno patrimoniale per fa scattare la vendetta. Il danno patrimoniale deve offendere.

Il codice non è un semplice ordinamento che cerca di regolare la vita sociale della comunità ma diventa sinonimo della comunità stessa. E' nel codice come espressione culturale e nello stesso tempo come storia della comunità nel determinare cosa sia offensivo e cosa non lo sia, l'azione vendicativa e i suoi limiti, che un barbaricino si può identificare in quella comunità.

Il codice della vendetta barbaricina malgrado si ponga il fine di regolare il “chi”, il “quando”, il “perché”, il “come” e il “a chi” della vendetta come strumento di regolazione sociale, in realtà, questo strumento, non conclude mai. Non compie mai con il suo fine ultimo. Non vuole concludersi perché è innanzitutto un codice di guerra e non di pace in quanto ogni atto di sangue esige sempre e comunque un altro atto di sangue, a vendetta segue vendetta. Non conclude mai perché l'azione in sé non conclude mai, non è mai risolutiva. Nella visione pessimistica l'azione non riuscirà mai a liberare se stessa. Ecco allora che quando il codice non soddisfa più il suo scopo interviene all'interno della comunità un altro organo che cerca di ristabilire la pace. Un comitato che pur riconoscendo il codice cerca di ristabilire la sicurezza nella comunità ridando a ciascuno l'onore perduto.

Il codice della vendetta si pone in antitesi con l'ordinamento giuridico dello Stato che viene percepito come mala giustizia. Questo porsi in antitesi è perché il codice rappresenta una comunità, una “comunità del noi”, “noi pastori”, “noi barbaricini”. Questa contrapposizione si è dato non solo oggi con lo Stato italiano ma anche quando nel medioevo c'erano altre amministrazioni già più vicine alla cultura sarda come quella dei giudicati. E' pur vero però che il codice tiene conto di altri ordinamenti giuridici che però trasforma a meri strumenti di vendetta. Cioè ci si può avvalere della giustizia ordinaria dello Stato per operare con la vendetta, ovviamente solo quando si è certi che la pena pensata da quell'ordinamento è di sicura attuazione e proporzionata al danno.

Tutto il codice deve essere inquadrato in una particolare visione della vita e dell'essere umano. Per la cultura barbaricina, per il barbaricino la sua vita è la peggiore che possa essere vissuta ma paradossalmente anche la migliore possibile. Una concezione della vita quindi profondamente pessimistica. L'esistenza è immersa in una natura completamente ostile che non riserba nulla di buono ed in questo registro di abbandono, di solitudine di fronte alla natura che è profondamente “insecuritas”, che spinge questa cultura non al mero esser forti ma al saper esser forti, in tutte le circostanze della vita. Non si aspira ad esser forti ma conoscere come esserlo quando la necessità lo richieda. In questo saper esser forti vi è tutta la conoscenza a restare essere umani per non terminare, per non cadere in una condizione di animale. E' nella comunità che condivide quei valori, che ci si sente a casa, in quella casa, in quel paese, in quel “regnum hominis”, che diventa l'unico modo per sentirsi uomini. Così scrive il Pigliaru: “Il regnum hominis che il pastore barbaricino fa emergere dalla sua esperienza nella natura e della natura per resistere, su un piano umano, all'impeto travolgente della natura medesima (natura improvvida ed ermetica quale la conoscerà anche il pastore leopardiano), nasce da un impegno che l'uomo pone a se stesso, come l'atto di un impegno all'uomo, come impegno costitutivo. Impegno di fedeltà, per cui essere uomo sarà esser fedele a quest'impegno che l'uomo è a se medesimo, a questo sforzo che l'uomo pone in essere in se medesimo, per resistere come uomo, alla vita e nella vita; e, in fine, contro la vita ma per la vita.”. Si crea così “una metafisica civile che è la città, la società, la vita stessa come vita umana.”

Partendo da questo punto di vista l'offesa offende l'onore come unità sociale come agglomerato di valori in cui prevale quello della forza, perché rigetta l'uomo nel mondo dell'incertezza. Si crea quella frattura sociale in cui l'onore perduto è l'unità di misura. Quindi la vendetta è dovere perché deve ricucire quella frattura. E' per questo che il danno materiale non è sufficiente a far scattare la vendetta. Ecco come il Pigliaru ci spiega quest'aspetto: “L'offesa offende l'unità sociale, rigetta l'uomo nel mondo dell'incertezza: introduce una frattura, un miasma che significa – fatalmente – la crisi di tutto il mondo che l'uomo ha edificato a se medesimo, per vivere in esso, fuori della natura e contro la natura, una vita umana. L'offesa è così la crisi di ogni tentativo di pensarsi umanamente che l'uomo compie nell'esperienza e nella vita per salvare l'esperienza (l'azione) e la vita: l'offesa offende in effetti questa nuova idea che l'uomo ha di sé dal momento che non si pensa non più come una fiera solitaria, ma come uomo, cioè come persona, e soggetto quindi di nuovi rapporti sociali posti in essere da lui stesso nello sforzo di umanizzare se stesso e la propria vita.”
Concepita così l'offesa la vendetta si configura così come un dovere morale, giuridico e universale.
Si concepisce così perché è la cultura e la stessa vita quotidiana così come le aspettative per il futuro che lo comprendono e lo strutturano in tal modo.
La comunità barbaricina dice all'uomo che è stato offeso che se non si vendica non è e non sarà un uomo affidabile, sarà invece considerato come moralmente miserabile perché risulta infedele al suo paese, alla sua famiglia, alle sue amicizie e quindi a tutto ciò che da fondamento alla sua stessa vita. Vendicarsi quindi, cioè l'opporre la propria violenza all'altrui insolenza acquista quell'universalità in quanto non significherebbe altro che partecipare alla legge ineluttabile di conservazione e progresso della vita. Il Pigliaru riprende così le parole di Eraclito per spiegarci questa sua tesi: “solo la malattia fa dolce la salute, il male il bene, la fame la sazietà, la fatica il riposo”, “ non si conoscerebbe nemmeno il nome della giustizia se non ci fosse l'offesa”#

Vito Correddu
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